Andare a votare mi è sempre piaciuto, amo la banalità della democrazia, nutro simpatia per i seggi, gli scrutatori, i tabelloni appesi, le guardie che guardano, la matita copiativa. Mi emoziono ogni volta, anche se le volte oramai sono tante.
Una settimana fa si concludeva la mia ennesima esperienza da scrutatore. Non ho mai tenuto il conto preciso ma, al ritmo con cui votiamo in Italia, dal 1990 ad oggi saranno state quasi una decina.
Si comincia poco più che maggiorenni, per fare un’esperienza in più (e arrotondare quella che all’epoca era una paghetta) e si finisce per restare in un rituale immutabile. L’ingranaggio “intimo” della democrazia che è tutt’altro che banale.
La cancelleria vetusta, l’odore di inchiostro tipografico, gli elastici di gomma, il timbro, i verbali in quadruplice copia, le caselline per le crocette, le matite copiative, il legno stagionato e puzzolente delle cabine, le lampadine da 15 watt, il nastro gommato per sigillare tutto, comprese porte e finestre, le firme su quel nastro, le buste e che vanno dentro ad altre buste che vanno dentro a bustone enormi insieme alle schede, moderni sarcofaghi della volontà popolare.
E’ più o meno come spiare al microscopio i globuli rossi nel sangue, la circolazione periferica, gli alveoli polmonari, le piccole cose che ci mantengono in vita.
Le radici della democrazia, le procedure che almeno nelle intenzioni, garantiscono il corretto incanalamento della volontà popolare si imparano stando due giorni e mezzo (e a volte, grazie a presidenti incompetenti, si vedono anche due albe) chiusi in quella stanza, dove gli elettori arrivano lentamente uno dopo l’altro come le gocce in una flebo. Materializzano in corpi reali quello che si legge nei libroni delle liste elettorali: nomi, cognomi da nubili e da sposati, date di nascita, titoli di studio.
Se vuoi imparare qualcosa di concreto sulla delicatezza, sulla tenerezza di una società e sulla privacy delle nostre vite, fa’ almeno una volta lo scrutatore. Nomi e date di quelle liste diventano persone, alcune sono come te le aspetti, altre completamente diverse, alcune raffinate e gentili, altre rozze, molte indifferenti. Molti sono intimiditi, gradiscono essere guidati, basta un “venga da me che le do le schede” e subito sono rassicurati. Altri vogliono lo scettro del comando. Di alcuni prima vedi la foto da giovane sul documento, poi noti la data di nascita uguale alla tua e ti chiedi: anch’io faccio quell’impressione? Il tempo passa così in fretta? E io cos’ho combinato negli stessi anni?
Pagine e pagine di firme da fare, casi e sottocasi di gente che vota nel seggio ma non abita nella zona, militari in licenza e altre amenità che preferiresti evitare di verbalizzare. Casi e sottocasi di schede contestate da esaminare poi. Rigorose procedure per il conteggio. Procedure per aiutare elettori non vedenti, non deambulanti. Risposte da dare alla vecchina che non sa richiudere le schede (“Non me le faccia vedere, le arrotoli come un lenzuolo, piuttosto!”). I voti dati con segno tremante. Quelli che “sa come si vota, signora”? “Le ho fatte tutte dal ’48, avrò ben imparato come votare, veh!”.
Ti senti come quando assisti un anziano o un bambino, come quando gli rimbocchi le coperte e cammini piano per non svegliarlo, come quando lo cambi senza farglielo pesare, perché tutto vada per il verso giusto e ognuno possa mettere la crocetta dove vuole. E tu stai attento a non dimenticare una firma, a trascrivere tutte le cifre delle tessere elettorali, a rincorrere quelli di cui ti sei dimenticato quando la stanchezza ha avuto la meglio.
Poi pensi al mistero delle schede bianche 2006, di quella notte da incubo . Poi pensi ai due anni di governo che hai voluto a tutti i costi. Poi ti arrendi all’idea di doverti rendere conto di chi ha stravinto stavolta ma soprattutto di chi ha straperso.
Fai una carezza sulla testolina di quell’embrione di democrazia. Congelato.
Buona notte.
Speriamo bene.