Risonanze

Gita in Calvana

(foto: La Repubblica Firenze)

C’è qualcosa di diverso dentro di noi quando si diventa genitori. Qualcosa fa clic e, volenti o nolenti, si percepiscono i fatti della vita diversamente, quasi fossimo dentro le teste di tutti gli altri genitori, belli, brutti, simpatici, antipatici, conosciuti o estranei.

E’ una cosa che vorrei spiegare al mio io trentenne di dieci anni fa che, alla notizia della morte di un bambino di 11 anni durante una gita in montagna avrebbe forse reagito con un “oh, poverino”:

E’ morto il bambino di 11 anni vittima di un attacco cardiaco mentre era in escursione sul monte della Calvana, sopra Prato. Altri ragazzi, di una comitiva di un gruppo parrocchiale di Paperino, alla periferia di Prato, secondo le prime informazioni sembrava che fossero disidratati e stremati. Ma la diocesi di Prato spiega: “A noi hanno detto che tutti gli altri piccoli stavano bene e che uno solo ha avuto il malore”. La Usl di Prato ha poi reso noto che i 74 bambini, il parroco e due accompagnatori “che apparivano emotivamente provati per quanto accaduto ma erano in buone condizioni di salute”.

Stamattina invece, ascoltando Prima Pagina, mi si è spento qualcosa dentro. Sarà che Ulisse ha appena preso un colpo di calore, sarà che di problemi cardiaci congeniti ne sappiamo qualcosa, sarà che conosco la montagna e la necessità di partire e tornare presto (non arrivi in quota alle 2 del pomeriggio, per dire).

Non è la somma di questi motivi razionali, è la morte di un bambino che da sola si propaga come un’onda nera dentro di noi e risuona sorda, senza giustificazione alcuna.

In ricordo di Nino Loperfido

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Oggi pomeriggio dalle 15 alle 18, nella sala Zodiaco della Provincia di Bologna, si terrà il convegno Le pratiche del Sogno – In ricordo di Nino Loperfido – Bambini e bambine di nuova generazione a Bologna.

Dopo il documentario realizzato da Giuliano e Giacomo, un altra occasione per ricordare un pilastro delle nostre amicizie.

Intervengono: Anna Del Mugnaio, Graziella Giovannini, Mariagrazia Contini, Maria Teresa Tagliaventi, Giancarlo Rigon.

Io ci sarò, almeno per la prima parte.

Scarica l’invito in pdf

Star Wars generations

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I bimbi sono nella loro cameretta: il quattrenne ha imposto al settenne l’ennesima visione di Episodio 2 su un vecchio iMac G4:

[tutte le erre sono inesistenti]

– Vedi, Cesare, quello nero è Anakin, il papà di Luke, quell’altro è Obi-Wan, un suo amico…
– …
– Luke si riconosce perché è SEMPRE insieme a C1…

So, Mr. Lucas, additional scenes don’t matter, better rendering is useless not to mention high def or blu ray. Plot matters, tradition matters, the myth is all that matters.

Il mio vicino di casa, Steve Jobs

Not long after, I saw Steve as I was running in our neighborhood. He was deep in conversation with a younger version of himself — his very own mini-me in jeans, black tee-shirt, and wire-rimmed glasses. I must have looked like an idiot as I tripped over a crack in the pavement trying to give them wide berth.

It was at Halloween not long after when I realized he actually knew my name (yes, my name!). He and his wife put on a darn scary haunted house (to be specific, a haunted garden). He was sitting on the walkway, dressed like Frankenstein. As I walked by with my son, Steve smiled and said, “Hi Lisen.” My son thought I was the coolest mom in town when he realized The Steve Jobs knew me.

Thanks for the coolness points, Steve.

From then on, when I saw him holding his executive meetings in our neighborhood, I didn’t hesitate to smile and say hi. Steve always returned the favor, proving he may be a genius, but he is also a good neighbor.

(Via My Neighbor, Steve Jobs | Lisen’s “Blog” – An Angle of PrismWork.)

Questo post di Lisen Stromberg è del 29 agosto. Avrei voluto ribloggarlo ma continuavo a pensare che mi sembrava troppo agiografico e scontato.

Da ieri le cose sono diverse. Leggetelo tutto. E’ un racconto fatto di istantanee, come questa:

While Newsweek and the Wall Street Journal and CNET continue to drone on about the impact of the Steve Jobs era, I won’t be pondering the MacBook Air I write on or the iPhone I talk on. I will think of the day I saw him at his son’s high school graduation. There Steve stood, tears streaming down his cheeks, his smile wide and proud, as his son received his diploma and walked on into his own bright future leaving behind a good man and a good father who can be sure of the rightness of this, perhaps his most important legacy of all.

La camminata silenziosa per Francesco

La camminata silenziosa

Quest’anno non ho partecipato alla silenziosa marcia dal centro di Bologna alla Stazione. Non volevo mancare ad un’altra camminata per salutare il piccolo Francesco Schelfi.

Ho conosciuto la malga e i formaggi di suo padre Angelo e suo zio Orazio ben prima di diventare trentino adottivo e di mettere su famiglia legandomi a Brentonico. Una fattoria dove, prima di silenzio, altitudine, bontà del cibo, ti colpisce la pasta di cui è fatta la gente. L’intesa e il calore di uno sguardo che proviene da un volto rubicondo e da un corpo di roccia. Una forza accogliente, risate, saluti. Pochissime parole, molta intesa. Aiutame con quei formai, io provo a sollevare una forma da 10 chili ma Orazio la prende con una mano come fosse gommapiuma e la ripone su uno scaffale.

Chi è nato e vive in città probabilmente ha perso di vista la coesione e la forza del tessuto sociale di un piccolo paese. Qui è una rete sociale da sempre, altro che facebook. Un messaggio viaggia ad una velocità impressionante, sia che sia un fatto, un pettegolezzo, una presa in giro, un cambiamento in paese. Se hai bisogno di qualcosa trovi l’idraulico, il muratore ma anche il medico, il rianimatore, il vigile del fuoco, il pronto soccorso. Tutti a uno, massimo due gradi di separazione, più spesso a zero gradi di separazione. Non solo il fare è a pochi gradi di separazione, il sentire è a pochi gradi di separazione. Qui in Trentino la coesione è tutto.

E la rete sociale porta la notizia a casa nostra, a Bologna, per telefono, dopo aver sentito passare l’elicottero dei soccorsi, una voce tremante che rende tremanti le nostre voci. Angelo mi aveva offerto un bicchiere di vino al suo chiosco di formaggi, l’immagine stampata nella testa torna a galla immediatamente. Ed eccomi nella rete, il messaggio passa e devasta, i fatti escono dalla pagina dei giornali e diventano tridimensionali e partecipati.

BRENTONICO. «L’ho ucciso, l’ho ucciso». Angelo Schelfi gridava disperato, scendendo a piedi la pista Canalone con in braccio il corpicino del figlio Francesco. Un disgraziato incidente con il trattore, il mezzo si rovescia, il rimorchio si stacca, spaccando di netto il gancio d’acciaio e travolgendo il bambino di soli due anni e mezzo, sbalzato sul prato dalla cabina.

Ucciso dal trattore a due anni – Local | L’espresso

“L’ho copà! L’ho copàaaa!”, hanno scritto “L’ho ucciso” ma io me lo immagino che avrà urlato “l’ho copà!”, dice Daria leggendo la cronaca locale arrivati in paese. I suoi genitori hanno tenuto i giornali per noi. In copertina sul Trentino una delle foto più toccanti che io abbia mai visto, in cui mamma Daniela porta in braccio un fagotto da cui spuntano capelli biondi.

Siamo in paese, mancano due ore al funerale e la rete sociale pulsa di riverberi e di ricordi. In quel dialetto che è il vero collante sociale, che quando giunge alle masse in TV diventa macchietta ma che qui è l’amalgama fondamentale, per le chiacchiere e gli atti ufficiali, per le cose belle e per le tragedie. In quel dialetto sento pezzi di racconti su una famiglia e un bambino pieno di vita, talmente vivace da essere incontenibile con tutti tranne che con il padre con cui diventava docilissimo. Che dormiva chiuso a chiave perché era capace di uscire e andarsene chissà dove per i monti. Che quella mattina l’erba era ancora bagnata sul canalone, gh’era il sol ma l’era le dese, e l’erba l’era ancora mola da la not. Che qui i puteloti, i bambini, hanno un ruolo speciale mentre noi in città ci facciamo le seghe sulla città a misura di bambino.

Il funerale del piccolo Francesco comincia alle 15 ma la chiesa è già piena quando mancano 10 minuti. In paese un silenzio irreale, riempito dal suono delle campane. Daria chiede se dobbiamo portare la busta o se c’è da firmare. All’ingresso della chiesa troviamo il quaderno per le firme e lasciamo un abbraccio anche da parte dei nostri puteloti. Accanto ci sono due ceste piene di buste. Cosa sono, offerte? No, qui l’usanza è di lasciare le condoglianze in forma privata, ognuno in una busta. Il registro delle firme è l’eccezione.

Il prete va avanti con la messa che seguiamo distrattamente da fuori. Guardo le facce della gente, loro guardano me. E’ come se sapessimo tutti cosa fare e perché stiamo lì, anche se non conosco quasi nessuno di quelli che mi circondano. Azzardo qualche foto, poi metto via la reflex che mi fa sentire un avvoltoio. Non riuscirò mai a cogliere quell’atmosfera fatta di silenzi e di consapevolezza dolorosa. Opto per l’iphone, più discreto e sufficiente a cogliere alcuni dettagli d’insieme.

Ci scambiamo un segno di pace, forse l’unico momento sensato del rito religioso che volge al termine. Come ricevendo un ordine implicito ci spostiamo, disponendoci ai lati dell’entrata con composta efficienza, come una coreografia già provata. Dall’interno qualcuno applaude. Poi esce il proiettile.

Percorrendo velocemente tutta la navata poi attraversando il portone ci passa davanti. Bianca, bianchissima. Portata a mano. Braccia grosse come tronchi portano una bara troppo corta per essere tenuta da tante mani. Qualcosa esplode dentro ognuno di noi. Il portellone del carro funebre si chiude e tutti si mettono in moto.

Ci stiamo per accodare ma rimango attonito. Non riesco a smettere di guardare la cassetta delle condoglianze. C’è arrivato anche un cagnolino di peluche.

Il rito silenzioso da immobile si mette in movimento. La coreografia spontanea diventa una lunga camminata lungo la strada che costeggia la chiesa diretta al cimitero. Nessuno parla, è un caldo giorno d’estate, c’è un po’ di vento che scuote gli alberi, un silenzio affettuoso e rispettoso.

Il cordone giunge al cimitero, il piccolo cimitero ordinato e raccolto di un paese come questo, che attraverso le sue diverse entrate vede dividersi il cordone di gente e ognuno trovare posto dove può, dove vuole. Il cimitero è quadrato ma l’impressione è di trovarsi in un arena, con gli sguardi diretti verso il centro, il sole, il vento, gli alberi, le facce che dicono molto anche senza parlare.

Un singhiozzo profondo squarcia il silenzio, poi un altro e un altro. La bara scende, Angelo e Daniela vanno via. Orazio riceve gli abbracci di tutto il paese e anche i nostri. Piano piano, senza clamori, senza frasi fatte, senza piagnistei, la rete sociale risponde e restituisce affetto.

Ci incontriamo con Beppe, il fratello di Daria. Beppe ha tre figli, i cuginetti di Cesare e Ulisse. Ci guardiamo e piangiamo. A più riprese. Era un po’ che cercavo di mettere insieme le idee per raccontare cosa voleva dire essere genitori, sul perché prima di esserlo i bambini ti sembrano cuccioli di uomo che fanno tenerezza o poco più e dopo diventano parte di te come se il fegato e il cuore mettessero le zampette e se ne andassero in giro ridendo.

I bambini sono vita che ride e che va in giro. Avere dei bambini ti rende speciale e ti fa vivere meglio. Avere dei bambini ti mette in comunicazione con tutti i bambini del mondo. E quei ciuffi biondi è come se li conoscessi anche tu e volessi riportare indietro la macchina del tempo a tutti i costi.

Bologna, alla stazione il 2 agosto

Questo edificio rimarrà dov'è

Ecco il fotoracconto del corteo del 2 agosto.

C’era parecchia gente quest’anno, forse complice il caldo non ancora torrido, c’erano i parenti, le autorità, adulti e bambini, partigiani giovani e vecchi, associazioni, striscioni, colori.

Proprio stamattina al lavoro un amico mi ha chiesto perché ci vado, se ho motivi personali per farlo.

Gli ho risposto che non sono parente né conoscente delle vittime ma che avere 12 anni e vedere la propria città sventrata è un’esperienza che ti segna.

L’esercizio della memoria attraverso il rituale di una lenta camminata estiva è un’esperienza che arricchisce sempre.

Ogni persona in più che sotto il sole d’agosto accompagna in Piazza Medaglie D’Oro chi ha ancora le ferite in corpo fa una cosa buona.

E noi continueremo a farlo, programmando le ferie di conseguenza, anno dopo anno.

A Bologna, il 2 agosto si arriva anche a piedi, partendo tre giorni prima.

Il percorso inverso l’abbiamo fatto in macchina, percorrendo nel pomeriggio un’autostrada quasi vuota, il giorno del grande esodo in direzione Milano, con buona pace del bollino nero.

C’era un bambino da salutare, una mamma e un papà da abbracciare e qualche domanda di Cesare da evitare.

Questa è stata la nostra staffetta.

Da Paullo a Bologna

Ciao, Thomas

The Candle by Rickydavid.

Questa notte, un bambino se ne è andato.

Non è facile combattere contro un neuroblastoma, né per te che hai tre anni né per chi ti sta accanto.

E a Thomas sono state accanto in tante, le mamme della squadra di ALF, a sentire insieme, a fare il tifo insieme, a combattere insieme.

Non importa che sia stata l’Internet dei forum invece di quella dei blog e dei link. Thomas (e i suoi genitori) non è mai stato solo in questa battaglia.

Con le candeline che lo hanno accompagnato.

Con gli sms, con le telefonate, con i messaggi privati.

La condivisione che unisce le persone e le trasforma.

Che questa sera farà attraversare mezza Italia alle mamme di ALF.

Che non smetterà di albergare in chi non può muoversi.

Che è come se fosse li’.

Che non va bene tenersi tutto dentro.

Ciao, Thomas.

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