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Mi è toccato fare il fan fino in fondo ma non me vergogno: vic aveva preavvertito Luca, il batterista degli Apple Pies cui ho dovuto portare i suoi saluti.
Una buona ora di chiacchiere, fumando sigarette sotto la pioggerellina brentegana, ha chiuso due ore di performance beatlesiana (gli Apple Pies preferiscono non chiamarlo concerto). Il tipico incontro tra fan: ma l’occhio a mezz’asta di Paul lo fai apposta o è tuo? No, in effetti c’è un po’ di studio… e la posizione delle gambe nella parte 1963? E’ colpa degli stivaletti? No, anche quella l’abbiamo imparata guardando i DVD… E comunque all’Hollywood Bowl dicono “One was black and white and one was coloured” eggià, eggià. E l’errore nell’assolo di Please Please me era voluto, mica me la contate giusta… anche quello, conferma ManuPaul.
Hanno inciso nello studio 2 di Abbey Road, questi ragazzi, confessando un tonfo allo stomaco che li ha presi come al sottoscritto davanti alla porta degli studios molti anni fa. E si parla del perché a noi fan succede così, del perché nasce il bisogno di rievocare con precisione del modellista che ricostruisce un B-17 fino all’ultimo finestrino.
Perché con i Beatles è così, perché – dico io – c’è stata una meraviglia in un passato non vissuto, inesorabilmente terminata e che ogni fan vorrebbe far rivivere, a costo di rapire il Doctor Who e viaggiare nello spazio tempo anche solo per un attimo. Sentire I’ll Be Back in 3/4 in Anthology 2 ti fa sbirciare i Beatles dal buco della serratura. E per pochi minuti la magia ritorna e tu se lì con loro. Questo è lo spirito dei fan.
Non è il museo delle cere come temevo all’inizio, i ragazzi si danno un limite alla somiglianza fisica, alle mosse, e perfino all’aderenza filologica delle canzoni. ManuPaul non intende suonare il basso con la sinistra, Luca si tiene il fisico che ha. Nessuno, parafraso io, intende diventare il tristerrimo sosia si Elvis che anima i casino di Las Vegas.
Studiano le canzoni ascoltando i dischi (e anni addietro, le cassette), non si basano sugli spartiti, che tuttavia consultano. Insieme concordiamo che al tempo di youtube è tutto più facile ma essere Beatle Fan negli anni ’80 voleva dire non sapere il vero colore della chitarra di George Harrison o fotografare il video della TV in mancanza di videoregistratore quando la RAI mandava lo spezzone di un concerto.
E il loro concerto anzi, performance, è trascinante: parte in sordina, con i primi pezzi della Beatlemania dal 1963 al 1965 eseguiti con rigore filologico di note, coretti e introduzioni con accento di Liverpool (quelle che si sentono nei DVD, mica inventate). Partono con From Me To You, Please Please Me poi vanno su I Want To Hold Your Hand, She Loves You, All My Loving.
Le note ci sono tutte, le mosse anche, i vestiti seriosi e attillati pure con tanto di stivaletti. Non sono i Beatles, certo ma ti regalano qualcosa: ti danno una gocciolina di emozione di quello che avrebbe dovuto essere trovarsi là in quel momento. Oggi ci sono i DVD, ma non è come stare di fronte al sound di un concerto dal vivo. Mi si passi il paragone blasfemo: è come mangiare in un ristorante italiano all’estero… quando l’Italia dovesse non esistere più, sprofondata per sempre negli abissi. E’ meglio di niente, ma è soprattutto un atto d’amore a quello che è stato. Ecco perché performance e non semplice concerto.
E allora bravi ragazzi, vi si perdona tutto, le voci non perfette, la personalità di Paul che prevarica su quella di John (nel 1964 sul palco il secondo prendeva in giro il primo), i coretti diversi da come li avrei fatti io, ma ogni fan avrebbe fatto a modo proprio (e ce lo siamo detti dopo).
Dopo i primi pezzi i ragazzi si scaldano, cominciano a suonare per loro (quindi per noi fan) più che per la filologia, fanno cantare Twist and Shout al pubblico (che fa le quattro note all’unisono anziché in coro ma non stiamo a sottilizzare che gli astanti sono in soprannumero) per passare a I Feel Fine, Ticket To Ride e traghettano il sogno attraverso Rubber Soul (con Michelle e Girl), saltando Revolver e Sergeant Pepper (volutamente, c’è uno spettacolo dedicato) fino al secondo periodo beatlesiano.
Qui i parametri sono molto più liberi, gli Apple Pies passano da una Across The Universe acustica a Hello, Goodbye, Penny Lane, Lady Madonna, fanno tutte le gemme di George (Something, Here Comes The Sun – che non è la musica di un’assicurazione, dannati spot pubblicitari – e, favoloso, While My Guitar Gently Weeps), si scatenano in Come Together e Get Back. Il pubblico li segue, la serata è ingranata perfettamente, la finzione è diventato rituale collettivo, un sogno colorato. E funziona. E si aspettano i bis.
Mi mancavano giusto Back in The USSR e Magical Mystery Tour ma per i bis hanno deciso di schierare i pezzi più soft, e partono con un raffinato Free As A Bird con mix sul piano di Let It Be (con assolo versione album non singolo). Alla fine tutti si canta in coro Hey Jude, diretti da un Paul che è in realtà quello degli ultimi concerti di questi anni.
Una serata tutta hit, praticamente le due raccolte quella rossa e quella blu, dico io, One meno qualche pezzo, ribatte Luca. Ma fanno anche le serate only for fans, dove ci sono solo pezzi da intenditori, come quelli del grandioso Live At The BBC (di cui gli rifaccio gli annunci di Paul), serate che si imparano dalla loro mailing list. Da andarci solo per sentire, Hippy Hippy Shake o I Call Your Name. ManuPaul sostiene di sostiene di sapere anche tutta You Know My Name (look up the number) ma lo voglio sentire nel pezzo parlato.
Basta parole, tutte le altre foto sono al loro posto, su flickr.