Il mattino ha la privacy in bocca

Copertina del Manuale del Giovane Detective

Sono le 7:29 del mattino. Tra pochi minuti porterò fuori i bimbi (già svegli da un’ora): Ulisse al nido e Cesare alla fermata dello scuolabus.

In un paio di centinaia di metri succederanno, in ordine sparso le seguenti cose:

L’impiegato dai capelli scuri della banca sotto casa mi saluterà con un asciutto “buongiorno”, conquistato dopo un anno di incrocio di sguardi.

Incontrerò la sua collega dall’espressione triste, i lunghi capelli castani lisci, che ogni mattina esce dal giornalaio abbracciando il sole 24 ore, fumando la sua prima sigaretta ed evitando il mio sguardo. Ricorda paurosamente la ragazza depressa di What Women Want.

Occasionalmente la loro direttrice, una bella donna sui 50 anni, bionda, farà qualche convenevolo ai bimbi, ché lei ha la parlata facile. La piccola squadra aprirà quindi la filiale.

Vedrò il vicino di casa occhialuto dall’espressione depressa che sta dentro il giornalaio. Se ne andrà su una vecchia bici graziella.

Davanti al barbiere che deve ancora aprire c’è il signore elegante che esce tutti i giorni vestito di tutto punto in gessato scuro, camicia a righe, cravatta e fermacravatta, volto fresco di rasatura e lunga chioma da farsi sistemare. Ha sempre una borsa della spesa elegante, di un particolare negozio di abbigliamento, per portare due piccoli oggetti (occhiali forse?, si vedono appena dall’imboccatura).

A volte, prima del barbiere fa la fila alla posta, che si trova nello spiazzo della fermata, insieme alla piccola coda di abitudinari, già pronti con i bollettini in mano alle 8 meno 5. I vetri dell’ufficio postale ancora chiusi.

Vicino alla fermata c’è la banca nuova tutta vetri trasparenti, un acquario inaugurato da poco più di un anno, che ogni giorno viene aperto da una bellissima ragazza dal caschetto biondo tagliato al laser: fa colazione insieme ai suoi colleghi alla pasticceria di fronte, si rifornisce di sigarette al tabaccaio qui vicino e apre la filiale rigorosamente dopo averne fumata una. Potrei fare il grafico della frequenza di cambio d’abito e del Giorno del Parrucchiere tanto è ISO 9000 quella pettinatura. Per non parlare dell’utilitaria nel parcheggio condominiale, proveniente dal concessionario di Imola.

Stesso discorso, un po’ meno modaiolo per i suoi colleghi maschi. Abiti scuri elegantissimi, capigliature corte lucide di gel e scolpite con la mola a disco. Facce da primo mattino, li vedi attraverso i vetri sfogliare pigramente il sole 24 ore. E’ evidente che si spartiscono le mattine di apertura lungo la settimana.

Sui bar non diciamo niente: quelli sono luoghi di abitudinari, li frequenti e sai cosa succede senza che ciò debba stupire. Limitiamoci ad annotare le consegne che fanno le bariste, armate di vassoi e caffé al vetro ricoperti di fazzolettini di carta, negli uffici e negozi attigui.

Per non parlare di tutta la popolazione che vive alla fermata dello scuolabus: i “compagni di fermata” della materna e delle elementari sono praticamente degli amici ed è ovvio che conosca le loro abitudini mattutine.

Naturalmente vale il contrario: l’impiegato, la direttrice, il giornalaio, la biondina, il distinto signore si chiederanno chi è quel papà che tutte le mattine alterna facce sempre più stravolte e si aggira per la via con la tuta al posto dei vestiti, lottando contro due bimbi un tempo piangenti a sirena, ora litiganti per fare passeggino-pooling, spinto di corsa per prendere il bus al volo.

Tra le 7 e mezza e le 8 il quartiere si anima e tutti sembrano fare le stesse cose, sincronizzati come soldatini. Se ci vivi dentro non puoi fare a meno di (an)notarli. La gente non si nasconde, anzi: lascia tracce, mostra scritte e marchi. Non c’è niente di male a ricordarsene: nulla che da tredicenne non avessi letto ne Il Manuale del Giovane Detective.

Se fosse una canzone sarebbe una cover bolognese di Penny Lane.

Se il quartiere fosse FaceBook il Garante della Privacy chiederebbe a tutti di girare con occhiali, baffi e nasi finti.

Da qui a chiedere l’oscuramento di via Andrea Costa il passo sarebbe breve.

La sua chiamata è importante per noi

Chiamata ad Hera dopo 45 minuti di attesa

A Bologna il 4 ottobre si ferma tutto: è il santo patrono (San Petronio che coincide con San Francesco e noi in quanto Umbri tifiamo per entrambi). Sarà una coincidenza ma una mini riunione delle su’ donne porta Daria in libera uscita e mi lascia solo con i bimbi.

Nel contempo il programma della giornata prevede lo smaltimento di rifiuti casalinghi pesanti (vecchi aspirapolveri) nella stazione ecologica Hera che abita comodamente a poca distanza.

Dovendo incastrare l’operazione dopo il sonno dei piccoli e la visita dalla nonna cerco di informarmi per tempo. Obiettivo: capire se l’apertura 9-18 del sabato vale anche il giorno di San Petronio.

L’apposita pagina non dice nulla. Non c’è neanche un telefono a cui chiedere. Il numero verde Hera è chiuso a quest’ora. Google e Pagine Bianche non danno risposte utili.

Mi intestardisco a trovare un numero di telefono con un umano che mi chiarisca il dubbio: e se dovessi assolutamente smaltire dieci frigoriferi usati entro oggi? Un autoblindo? Un castello di poppa? Una betoniera? Meglio saperlo prima di muovere un trasporto speciale.

Decido di chiamare il numero della sede centrale di Hera. Lo faccio mentre preparo la pastasciutta ai piccoli, metto il dect in viva voce e aspetto.

Aspetto.

Aspetto.

Aspetto.

Aspetto e comincio a farne la cronaca.

Desisto verso i tre quarti d’ora, quando il sonno dei piccoletti comincia ad essere minacciato dalla musichetta di cortesia. Ma prima decido di documentarla.

Conclusione: mi sembra di aver capito che il 4 ottobre la sede centrale di Hera non risponda oppure che siano tutti impegnati in lunghissime conversazioni. Non saprò mai fino all’anno prossimo se lo stesso giorno chiude anche la stazione ecologica.

Però dopo 46 minuti e 08 secondi mi sono sentito molto ma molto importante per loro. 🙂

I Malavoglia e i Lupini

L’altra cosa notevole, culturalmente, è che su uno dei caposaldi tradizionali della nostra cultura scolastica e della nostra tradizione letteraria, tutti (compreso il corpo insegnante nella sua totalità, stando a una mia indagine sommaria) siamo sempre stati solidamente convinti di una cosa che invece è – come detto – quantomeno misteriosa e controversa, oppure non abbiamo mai capito di cosa si parlasse. Insegnanti avvisati, ma non so se con la Gelmini si facciano ancora i Malavoglia

Wittgenstein – I lupini che non colsi

Ricordo tutto il primo anno di liceo dedicato ai Malavoglia, sacrificando il mostro sacro dell’Eneide, così da avvantaggiarsi sul programma di quinta. Da mostro sacro ottenemmo un incubo sacro. Note, riassunti, schede dei personaggi di una realtà antica siciliana che per un quattordicenne del 1982 aveva meno interesse di un telefono in bachelite nera per un iPhone maniaco di oggi.

Edizione con copertina verde già introvabile allora, da studiarsi più sui due terzi della pagina dedicata alle fitte note di Pietro Nardi che al testo. Il Nostro si occupò anche di eliminare uno scandaloso paragrafo in cui veniva citato un episodio a base di un cesto di corna deposto ai piedi della porta di casa. Roba da turbare le nostre giovani menti che avrebbero dovuto avvalersi dell’edizione Oscar Mondadori diffusa come le patatine.

Neanche a dirlo, a nessuno di noi venne mai in mente di chiedere dei lupini.

Blogfest o quasi

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Ci siamo, o quasi: la BlogFest per noi coincide con il weekend dai nonni a Brentonico dove i bolsi al completo sono arrivati ieri sera vincendo il sonno in autostrada.

Indietro con i post, con i feed, con i tumblr, con friendfeed, con l’igiene orale e il taglio delle unghie non abbiamo neanche consultato il programma e adotteremo il taglio più social possibile.

Insomma, bimbi e nonni permettendo, faremo più volte i 20 minuti di macchina che ci separano da Riva del Garda e ci si vede là.

Teneteci un badge, mi raccomando!

Buchi neri

Fare il fisico è stata una bella esperienza, come quelle gite scolastiche con tanto di luna piena, falo’ e qualche speranza che la più bella della classe ti degni di uno sguardo.

Poi però il pullman ti porta a casa e nei sedili in fondo se la spupazza qualcun altro.

I buchi neri, dicevamo, roba che quando non eravate neanche nati, sul finire degli anni ’70 riempiva i paginoni della sezione scienza di Panorama, con tanto di figura del malcapitato attraversatore del Buco che finiva stiracchiato in chissà quale parte dell’Universo.

E così ti frullano in testa degli strani mischioni tra frasi fatte giornalistiche, ingredienti di fantascienza, due cucchiai di immaginazione e la frittata è fatta. Non ti ferma neanche Piero Angela che all’epoca, nella trasmissione Quark senza il Super davanti, si fermava pazientemente a spiegarti cosa erano ‘sti benedetti Quark (scoperti e ipotizzati relativamente da pochi anni), i loro amici Buchi Neri precisando che tutto quello che si sapeva di questi strani soggetti era una manciata di numeri e formule. Nessuno li aveva mai visti né si poteva sognare di vederli, nell’accezione comune del termine.

Com’è, come non è, a 19 anni finisci per iscriverti a fisica, ti fai un discreto mazzo tra esami di matematica, forma mentis tutta da forgiare e residui pensieri fantascientifici da purgare finché al terzo anno ti imbatti nell’Unico Complementare Teorico che puoi scegliere (nel 1990 funzionava ancora così). Relatività, mi pare ovvio (il genio di Einstein, lo spazio, la gravità, se eri femmina un prof. giovane dagli occhioni blu). Vuoi che un fisico non sappia nulla dello spazio tempo e dei buchi neri?

Superi pagine e pagine di formule sul quadernone, digerisci la notazione quadridimensionale con somma implicita sugli indici (sono ancora indeciso se pronunciarli mi e ni oppure mu e nu), fai fare alla tua immaginazione sforzi ben più contorti di quelli delle pagine divulgative dei giornali e approdi, dopo tre cambi di variabile in coordinate polari al tuo primo buco nero, una pagina e mezzo di quadernone dedicata alla Metrica di Kerr.

Da una serie di considerazioni che devi cercare di riportare su una sola dimensione spaziale e una temporale (dimenticando gli angoli che sarebbe troppo complicato capire), intuisci che la X e la T si invertono di ruolo oltre l’orizzonte degli eventi, oltrepassato il quale la X va solo avanti, ovvero gli oggetti cadono irreversibilmente nel buco nero e non tornano indietro. Alcune clausole che, se fossero un EULA di oggi, sarebbero scritte in piccolo in fondo alla schermata, dicono pero’ che ci vuole tempo infinito a raggiungere l’orizzonte degli eventi, che il modello vale per un buco nero sferico o puntiforme e che dall’altra parte forse c’è un buco bianco ma che tutti i punti della superficie che congiunge i due buchi (un wormhole) è di tipo space-like, ovvero: impossibile da raggiungere, sarebbe come andare indietro nel tempo. Non si attraversano i buchi neri, niente da fare, no viaggi intergalattici, niente stiracchiamenti, nada.

In altre parole: la realtà è molto più complicata, la metrica di un caso realistico la sanno solo i miei colleghi che ci si sono laureati e specializzati, chi ha tentato di metterci anche la meccanica quantistica non c’è ancora riuscito e chi ci ha provato mi ha mostrato formule ben più lunghe della mia: l’ultima che ricordo in teoria delle stringhe era lunga vari fogli A4 uniti con lo scotch. Solo la formula, mica la soluzione, eh?

Dietro la fisica teorica, come dietro quella sperimentale c’è un’estrema specializzazione, pagine e pagine di articoli, ore e ore (settimane e settimane) di tempo di calcolo su computer a molti processori, passione, sudore, colpi di culo e quant’altro possiate immaginare di più lontano dai titoli semplificatori dei giornali di oggi.

Dieci alla meno diciannove? Avete idea di che numero sia? Se fosse di una qualche importanza mi fionderei in tabaccheria a sparare 6 numeri a caso e diventare miliardario in tre tentativi.

Non faccio più il fisico da anni, al CERN ci sono andato in gita in pullman, il secondo anno, so un cazzo di cosa fanno in Svizzera, ma mi fido di loro. E’ come se, per oscure ragioni diventata mainstream, Internet fosse vista come una minaccia stile Matrix, foriera della fine del mondo, come se Novella duemila facesse i titoli sui pericoli dei pacchetti TCP/IP. Anche il meno tecnico di noi blogger starebbe ridendo ininterrottamente da settimane.

Forse è stato tutto veramente una gita scolastica.

Jaiku has moved to Google servers

Qualche giorno fa si speculava sulla migrazione in corso di Jaiku, servizio di microblogging acquisito da Google ormai molto tempo fa e mai integrato nella propria infrastruttura.

Gli unici segni di cambiamento erano la chiusura dei gruppi e la scomparsa di nuovi inviti.

Ieri mi arriva questo mail ufficiale che sancisce il primo passo della migrazione: Jaiku gira sui server di Google, preparandosi a funzionare sullo stack Google Apps Engine:

Dear bolsoblog,

We’ve been working on the Jaiku service over the weekend after finding an issue with one of our servers on Friday. As part of the solution, we’re moving Jaiku to a Google data center.

This is something that we’d planned to do anyway, as part of our future transition to Google App Engine. Now that we’ve moved, we’ll need to ask you to review and accept a new terms of service and privacy policy.

As a special thank you for your patience, we’d like to throw a little nest-warming party and open unlimited invitations for Jaiku.

Please sign in at http://jaiku.com to review and accept the new terms.

Special notice to users of Jaiku Mobile: to reconnect Jaiku Mobile after agreeing to the new terms, select ‘Go Online’ from the Options
menu on your phone.

See you there!
Jyri and the Jaiku team at Google

New Jaiku Privacy terms
New Jaiku Privacy terms

Una volta accettati i nuovi termini di servizio si ritorna sulla propria home di jaiku, dove nulla è per ora cambiato se non la possibilità di invitare un numero illimitato di amici.

Jaiku mi ha sempre incuriosito, come utente di Twitter che ha dovuto subire gli alti e bassi di questo servizio: in Jaiku ci sono tutte le cose che mancano (i commenti, i canali, il riassunto di chi hai come follower e come friend, le icone di status). Secondo me ha sempre avuto i numeri per sfondare, ma nel frattempo è uscito ed esploso il fenomeno FriendFeed: meno strutturato, più immediato, con un meccanismo di commenti a dir poco virale.

Sono curioso di vedere quanta vecchia “anima” di Jaiku verrà sacrificata alle feature social che piano piano hanno reso imprescindibili gmail, gtalk e Google Reader (shared items, email di ogni item, lista di amici con relativi shared items, etc.) e se l’impasto funzionerà.

CSI Bologna – un racconto di fine estate

Fresh World

Originally uploaded by Roc 78.

Nel palazzo di sei piani dove vivono i miei genitori c’è un vecchio ascensore. le porte di legno pesante con la finestrella, gli interni color ciclamino, i meccanismi quasi interamente analogici, che se non lo chiudi bene rimane fermo al piano, il motore rimodernato da poco con la ripresa degna della deriva dei continenti.

Questa vecchia gloria dei trasporti condominiali non brilla per capacità di ricambio d’aria tanto è vero che quando passa l’ascella pezzata di un condomino accaldato il ricordo permane a lungo. In agosto col caldo di Bologna non è cosa infrequente.

Orbene giusto ieri si andava a festeggiare il compleanno di Cesare e si coglieva un odore nell’aria che andava oltre i limiti previsti dall’ARPA. Dicono che hanno un cane odoroso, quelli di sopra. Vivo o morto?, penso io. Quattro piani passano in fretta e il compleanno, le candeline e la torta fanno dimenticare la tanfa che ferma gli insetti a mezz’aria.

Il buon blog è fatto di paragrafi

Una lista compilata da Merlin Mann in seguito ad una richiesta di consulenza per il nuovo servizio Blogs.com di Six Apart.

Sono 9 punti, tra cui campeggia il mio preferito:

4. Good blog posts are made of paragraphs. Blog posts are written, not defecated. They show some level of craft, thinking, and continuity beyond the word count mandated by the Owner of Your Plantation.

La divisione in paragrafi mi è sempre piaciuta: da quando ho scritto la tesi in LaTeX, ai primi esperimenti con l’HTML (entrambi i linguaggi isolano i paragrafi con righe vuote, nel rendering della pagina) ho trovato questa forma di divisione atomica delle unità di informazioni particolarmente utile nella lettura.

Mi è sempre parso di capire che fosse una tendenza anglosassone. Da noi si cerca invece di scrivere documenti il più simili possibile a un libro stampato.

Faccio molta fatica a leggere i blog che non vanno mai a capo, colpendoti negli occhi con quel “mattone di inchiostro”. Naturalmente faccio eccezione per gli amici più cari e le compagne di vita.

La lettura a scansione, indispensabile quando si seguono molti blog, è molto più difficile senza una corretta divisione in paragrafi.

Gli altri elementi della lista di Merlin sono focalizzati sulla forza della personalità del blogger e sulla determinazione a innovare e a coltivare i propri argomenti preferiti. Condivisibile ma decisamente ispirata al “darci dentro”, al “farcela a tutti i costi” che caratterizzano il modo di fare d’oltreoceano.

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MobileMe – altri 60 giorni gratis

Nella notte mi è arrivato un asciutto comunicato di Apple che, come già successo al momento del lancio, si scusa per i problemi del nuovo servizio MobileMe e offre 60 giorni gratis come omaggio di scuse.

MobileMe offre 2 mesi gratis per scusarsi

Nella mail è contenuto anche un link verso una pagina con maggiori dettagli.

La durata del servizio si allunga così a 15 mesi, estensione che fa molto comodo a noi vecchi utenti che ogni anno ci interroghiamo sul perché rinnovare, pagando uno dei costi nascosti di MacOS X, un servizio che ha ormai diversi omologhi gratuiti nel web2.0.

Nel mio caso la decisione di inizio ottobre si sposta a inizio 2009 e mi riprometto di provare a fondo tutte le feature di MobileMe. L’integrazione di tutte le componenti e le applicazioni del Mac OS è la cosa che mi piace di più del mondo Apple, la ragione per cui mi ostino a usare Mail e Safari invece di Thunderbird e Firefox, o, in ambito leggermente diverso (applicazioni Apple built-in rispetto ad applicazioni Apple a pagamento) iMovie invece di FinalCut Express.

Il viaggio nel tempo con gli AppLE PIES a Brentonico

From Me To You

From Me To You

Originally uploaded by BolsoMan [hanfed].

Mi è toccato fare il fan fino in fondo ma non me vergogno: vic aveva preavvertito Luca, il batterista degli Apple Pies cui ho dovuto portare i suoi saluti.

Una buona ora di chiacchiere, fumando sigarette sotto la pioggerellina brentegana, ha chiuso due ore di performance beatlesiana (gli Apple Pies preferiscono non chiamarlo concerto). Il tipico incontro tra fan: ma l’occhio a mezz’asta di Paul lo fai apposta o è tuo? No, in effetti c’è un po’ di studio… e la posizione delle gambe nella parte 1963? E’ colpa degli stivaletti? No, anche quella l’abbiamo imparata guardando i DVD… E comunque all’Hollywood Bowl dicono “One was black and white and one was coloured” eggià, eggià. E l’errore nell’assolo di Please Please me era voluto, mica me la contate giusta… anche quello, conferma ManuPaul.

Ticket To Ride

Hanno inciso nello studio 2 di Abbey Road, questi ragazzi, confessando un tonfo allo stomaco che li ha presi come al sottoscritto davanti alla porta degli studios molti anni fa. E si parla del perché a noi fan succede così, del perché nasce il bisogno di rievocare con precisione del modellista che ricostruisce un B-17 fino all’ultimo finestrino.

Perché con i Beatles è così, perché – dico io – c’è stata una meraviglia in un passato non vissuto, inesorabilmente terminata e che ogni fan vorrebbe far rivivere, a costo di rapire il Doctor Who e viaggiare nello spazio tempo anche solo per un attimo. Sentire I’ll Be Back in 3/4 in Anthology 2 ti fa sbirciare i Beatles dal buco della serratura. E per pochi minuti la magia ritorna e tu se lì con loro. Questo è lo spirito dei fan.

Non è il museo delle cere come temevo all’inizio, i ragazzi si danno un limite alla somiglianza fisica, alle mosse, e perfino all’aderenza filologica delle canzoni. ManuPaul non intende suonare il basso con la sinistra, Luca si tiene il fisico che ha. Nessuno, parafraso io, intende diventare il tristerrimo sosia si Elvis che anima i casino di Las Vegas.

Hoffner bass

Studiano le canzoni ascoltando i dischi (e anni addietro, le cassette), non si basano sugli spartiti, che tuttavia consultano. Insieme concordiamo che al tempo di youtube è tutto più facile ma essere Beatle Fan negli anni ’80 voleva dire non sapere il vero colore della chitarra di George Harrison o fotografare il video della TV in mancanza di videoregistratore quando la RAI mandava lo spezzone di un concerto.

E il loro concerto anzi, performance, è trascinante: parte in sordina, con i primi pezzi della Beatlemania dal 1963 al 1965 eseguiti con rigore filologico di note, coretti e introduzioni con accento di Liverpool (quelle che si sentono nei DVD, mica inventate). Partono con From Me To You, Please Please Me poi vanno su I Want To Hold Your Hand, She Loves You, All My Loving.

Beatles boot

Le note ci sono tutte, le mosse anche, i vestiti seriosi e attillati pure con tanto di stivaletti. Non sono i Beatles, certo ma ti regalano qualcosa: ti danno una gocciolina di emozione di quello che avrebbe dovuto essere trovarsi là in quel momento. Oggi ci sono i DVD, ma non è come stare di fronte al sound di un concerto dal vivo. Mi si passi il paragone blasfemo: è come mangiare in un ristorante italiano all’estero… quando l’Italia dovesse non esistere più, sprofondata per sempre negli abissi. E’ meglio di niente, ma è soprattutto un atto d’amore a quello che è stato. Ecco perché performance e non semplice concerto.

E allora bravi ragazzi, vi si perdona tutto, le voci non perfette, la personalità di Paul che prevarica su quella di John (nel 1964 sul palco il secondo prendeva in giro il primo), i coretti diversi da come li avrei fatti io, ma ogni fan avrebbe fatto a modo proprio (e ce lo siamo detti dopo).

Dopo i primi pezzi i ragazzi si scaldano, cominciano a suonare per loro (quindi per noi fan) più che per la filologia, fanno cantare Twist and Shout al pubblico (che fa le quattro note all’unisono anziché in coro ma non stiamo a sottilizzare che gli astanti sono in soprannumero) per passare a I Feel Fine, Ticket To Ride e traghettano il sogno attraverso Rubber Soul (con Michelle e Girl), saltando Revolver e Sergeant Pepper (volutamente, c’è uno spettacolo dedicato) fino al secondo periodo beatlesiano.

Penny Lane

Qui i parametri sono molto più liberi, gli Apple Pies passano da una Across The Universe acustica a Hello, Goodbye, Penny Lane, Lady Madonna, fanno tutte le gemme di George (Something, Here Comes The Sun – che non è la musica di un’assicurazione, dannati spot pubblicitari – e, favoloso, While My Guitar Gently Weeps), si scatenano in Come Together e Get Back. Il pubblico li segue, la serata è ingranata perfettamente, la finzione è diventato rituale collettivo, un sogno colorato. E funziona. E si aspettano i bis.

Mi mancavano giusto Back in The USSR e Magical Mystery Tour ma per i bis hanno deciso di schierare i pezzi più soft, e partono con un raffinato Free As A Bird con mix sul piano di Let It Be (con assolo versione album non singolo). Alla fine tutti si canta in coro Hey Jude, diretti da un Paul che è in realtà quello degli ultimi concerti di questi anni.

Thank you all we hope we passed the audition

Una serata tutta hit, praticamente le due raccolte quella rossa e quella blu, dico io, One meno qualche pezzo, ribatte Luca. Ma fanno anche le serate only for fans, dove ci sono solo pezzi da intenditori, come quelli del grandioso Live At The BBC (di cui gli rifaccio gli annunci di Paul), serate che si imparano dalla loro mailing list. Da andarci solo per sentire, Hippy Hippy Shake o I Call Your Name. ManuPaul sostiene di sostiene di sapere anche tutta You Know My Name (look up the number) ma lo voglio sentire nel pezzo parlato.

Basta parole, tutte le altre foto sono al loro posto, su flickr.

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