La politica della rete

Massimo Mantellini su Il Post getta molti semi di riflessione su come uno stato (e il suo Presidente) dovrebbe affrontare una politica per la rete

La politica delle reti non si fa nei convegni. Non si fa raccontando sui giornali i casi di eccellenza. Non si fa aggiungendo aggettivi agli articoli della Costituzione. Non si fa ripetendoci fra noi quanto il digitale sia sexy. Non si fa con le startup. Non si fa con le stampanti 3D. Non si fa su Twitter. La politica delle reti non è mobile first, al contrario andrebbe ancorata da qualche parte. Possibilmente dentro le nostre teste.

Il pezzo è da leggere per intero.

Aggiungo solo che se lasciamo la politica delle reti al marketing delle Telco, i cui spot ritraggono allegre combriccole di giovani che saltano e ballano sulle spiagge con i loro tablet guardando musica o calcio, avremo lo stesso effetto di promuovere la lettura tramite le pubblicità dei giornali: il grosso dell’utenza confluisce sulla Gazzetta dello Sport, letta al bar. Con l’unica differenza che sfogliare un giornale rosa non ti prosciuga il portafoglio come guardare filmati da una scheda a traffico limitato.

Non c’è input senza output

Sono diversi giorni che sentivo l’esigenza di tornare a scrivere quando poco fa mi imbatto su un invito a scrivere apparso su friendfeed (no link: c’è il lucchetto). Corro ad approfittarne.

L’esigenza mi è nata dalla lettura di una grande quantità di cose interessanti e dalla percezione di non riuscire a trovare il tempo per formulare qualsiasi pensiero da esse derivanti. Una sorta di blocco digestivo ma non solo.

Leggere i post degli altri senza scrivere è come mangiare senza correre, ascoltare musica senza suonare ma anche capire veramente quello che si è letto senza dargli una forma

We often don’t know what we think until we write it down

(Euan Semple, The Written Word)

Il fiume di informazioni, grandi e piccole, strutturate o amorfe, pensieri o trattati, battute o cose serissime, che ci passa davanti se non viene incanalato e poi decantato nella nostra mente finisce per stordirci. E il nostro cervello si atrofizza, le azioni si sciolgono nel pigro clic su like.

E il pensiero va agli abitanti della Axiom.

E’ ora di ricominciare. Grazie, Bat.

Molti anni dopo

Un blog e’ un viaggio, si fa piu’ per se stessi che per il resto.

(Via un blog di dieci anni – [mini]marketing)

Gianluca con la consueta scanzonata nonchalance festeggia i suoi dieci anni di blog offrendoci un piccolo trattato sociologico della blogosfera, di chi scrive ancora (quando si ricorda) per se stesso e di chi scrive per gli altri.

La rete si è de-elitizzata ma questo non ci ha reso più intelligenti e il pensiero corre ai FATE GIRARE!1! E alla loro pretesa di trasmettere contenuti in grado di cambiare il mondo con vignette taroccate e decontestualizzate.

Io penso che il blog rimanga una scialuppa per i propri pensieri, sempre pronta a salvarli dal mare delle dimenticanze, anche se viene usata poco e lasciata lì, coperta di salsedine a subire gli spruzzi dei flutti di Facebook e Twitter.

Excel: anni e mesi tra due date – metodo alternativo

Qualche giorno fa Gaspar ha proposto un metodo per calcolare con Excel il numero di mesi divisi per anno solare tra due date arbitrarie. Il problema da risolvere è ripartire le quote annuali di iscrizione ad un’associazione professionale. Cito dal post di Gaspar Excel: anni e mesi tra due date:

Paola lavora per una associazione professionale e si occupa delle iscrizioni, che iniziano in periodi diversi e valgono per periodi diversi. Anche l’ammontare della quota varia a seconda del tipo di socio.

Paola ha bisogno di imputare a ogni anno la parte di quota di iscrizione proporzionale ai mesi di validità di quell’anno. I dati rilevanti che estrae dal gestionale in un foglio di Excel sono la data di inizio, la data di fine e l’ammontare della quota:

situazione_iniziale

Ti faccio un esempio: se un socio in data 01/06/2012 ha pagato $240 per 24 mesi, Paola vuole imputare $70 nel 2012, $120 nel 2013 e $50 nel 2014.

Il metodo di Gaspar, cui avevo già suggerito di tenere conto di intervalli di tempo maggiori di 24 mesi, si basa su individuare dove si trova la “testa”, il “corpo” e la “coda” della sequenza di mesi rispetto alla scansione degli anni solari. Gaspar perciò individua quanti mesi ci sono nel primo anno, quanti nell’ultimo e quanti negli anni intermedi. La somma fornisce il numero totale di mesi e le tre categorie forniscono una classificazione in cui andare a piazzare le colonne di ogni anno, verificando per ogni cella annuale a colpi di funzione logica SE, l’appartenenza al primo anno o all’ultimo anno (assegnando quindi il relativo numero di mesi), ad un anno intermedio (assegnandogli di default 12 mesi) o lasciata vuota (l’ultimo caso della catena di SE). Ogni casella viene infine moltiplicata per la quota mensile per socio.

Il metodo presuppone due assunzioni forti:

  1. Che si conosca in anticipo l’anno minimo e massimo di tutta la serie di dati, per preparare correttamente le colonne
  2. Che non vi siano due date all’interno dello stesso anno, ad esempio un abbonamento di soli tre mesi:

Date nello stesso anno

In questo caso l’Excel calcola per il primo anno il numero di mesi fra la data iniziale e il mese di dicembre, sbagliando i calcoli (riga 11 dei dati di Gaspar che ho alterato per fare la prova).

Amo poco l’uso di catene IF-ELSIF-ELSE e avevo l’impressione che il metodo si potesse risolvere minimizzando l’uso delle funzioni condizionali e usando un numero minore di informazioni. Inoltre volevo risolvere anche il caso di due date nello stesso anno. La soluzione si è basata su questi tre punti:

  1. Individuare correttamente i mesi del solo primo anno
  2. Calcolare direttamente i mesi totali
  3. “Spalmare” i mesi totali su tutti gli anni successivi

Per fare questo occorre fissare i dati del problema che troveranno posto nelle prime quattro colonne dalla E alla H.

Per prima cosa ho calcolato in colonna E il numero di mesi totale fra le due date (DATA.DIFF) e in colonna F la quota mensile per socio, per non doverla ricalcolare ogni volta nelle celle annuali:

mesi totali

Quota mensile

A questo punto ho inserito in colonna G un controllo per verificare se la data di inizio e fine appartengono allo stesso anno, inserendo 1 in caso positivo e 0 in caso contrario:

=SE(ANNO($B3)=ANNO($C3);1;0)

Stesso anno

Infine, in colonna H, calcoliamo quanti mesi dobbiamo imputare al primo anno, andando a verificare nella colonna precedente se la data di inizio e fine cadono nello stesso anno solare:

=SE($G3;MESE($C3)-MESE($B3)+1;13-MESE($B3))

Mesi primo anno

Da qui in avanti comincia il calcolo vero e proprio. Ho inserito anche colonne di anni esterni all’intervallo dei dati di Gaspar per verificare che il metodo restituisse zero mesi negli anni fuori dall’intervallo consentito.

Nel mio metodo la prima colonna a sinistra nella serie degli anni è speciale: funge da “seme” iniziale su cui le successive fanno un calcolo per accumulazione. In colonna I controlliamo quindi se il valore dell’intestazione è uguale all’anno iniziale, se lo è inseriamo i mesi del primo anno, altrimenti zero. Questo controllo sarà comune a tutte le celle successive:

=SE((I$2-ANNO($B3)=0);$H3;0)

Mesi 2011

Negli anni successivi eseguiamo due controlli:

  1. Se il valore dell’intestazione della colonna è uguale all’anno iniziale (come nel caso precedente), nel qual caso inseriamo il numero di mesi del primo anno
  2. Se la colonna è maggiore dell’anno iniziale, nel qual caso si tratta di un anno intermedio o finale. In questo caso inseriamo il numero di mesi di quell’anno calcolandolo come il valore minimo (MIN) fra 12 mesi (anno intermedio) e la differenza fra i mesi totali meno la somma dei mesi sottratti in tutte le colonne a sinistra. In formula:

=SE((J$2-ANNO($B3)=0);$H3;SE((J$2-ANNO($B3))>0;MIN(12;$E3-SOMMA($I3:I3));0))

Sembra più complicato a dirsi che a farsi, in realtà è semplice. Avendo noi fissato i mesi del primo anno e i mesi totali, ci accertiamo che una certa colonna sia diversa dal primo anno e andiamo a scriverci i mesi residui dal conto totale. Vediamo come esempio la prima riga dei dati di Gaspar. Si tratta di un abbonamento iniziato nel 2012 e finito nel 2015 per un totale di 36 mesi.

Nel 2012 abbiamo 7 mesi, che vengono copiati correttamente nella colonna J (la colonna I fallisce il controllo fra intestazione della colonna e anno e quindi riporta giustamente 0)

Mesi 2012

Nel 2013 rimangono 36-7 = 29 mesi, cioè più dei 12 mesi che formano un anno intermedio. La formula con la funzione MIN della colonna K riporta quindi 12, il minimo fra 12 e 29:

Mesi 2013

Nel 2014 i mesi restanti sono 36-7-12=17 mesi, ancora più grande di 12 quindi la colonna L riporta 12 mesi.

Nel 2015, ultimo mese di abbonamento, i mesi restanti sono solo 5, minore di 12, quindi la colonna M riporta il valore 5.

E le colonne successive? Come fanno a sapere di essere esterne all’intervallo degli anni? Facile: non lo sanno!

Nella colonna N come nella O e nella P, verificata la condizione che il relativo anno di intestazione (2016,2017,2018) sia maggiore dell’anno iniziale (come per tutte le colonne precedenti), la “magia” viene fatta ancora una volta dalla funzione MIN: Il calcolo dei mesi residui dà sempre 0: 36-7-12-12-5-0-0-0-0-… = 0 e il minimo fra 0 e 12 è sempre…0!

I vantaggi di questa formula sono molteplici:

  • Non c’è la catena di IF-ELSIF-ELSE (migliore leggibilità)
  • Non devo controllare se sono sull’ultimo anno né se sono su anni intermedi con una doppia condizione, basta solo che non sia sul primo anno, il resto viene per differenza
  • Usando correttamente gli indici di colonna iniziali con il segno $ la sommatoria può essere spalmata automaticamente facendo copia e incolla delle formule sulle celle successive (utile in caso di macro).

Per concludere il calcolo bisognerebbe aggiungere tante colonne quanti sono gli anni in cui fare la moltiplicazione effettiva della quota mensile. Non l’ho fatto perché ho preferito concentrarmi sul calcolo teorico dei mesi. Personalmente preferirei fare un secondo foglio di calcolo che, usando i riferimenti alle colonne annuali del primo, si occupi solo della moltiplicazione: in questo modo non dobbiamo nascondere le colonne dei mesi e possiamo consultarle facilmente in caso di dubbi.

Bonus: ecco di nuovo la riga 11 con l’abbonamento “corto” nello stesso anno correttamente calcolato.

Stesso anno - esempio

Trivia: il foglio di calcolo è stato fatto il giorno di Pasqua con Numbers sull’iPad (da cui le screenshot colorate) e poi esportato in Excel (da cui ho tratto le formule testuali). In allegato i due file:

P.S.: per i solutori più abili: anche il mio metodo usa un terzo IF ma è ben nascosto!

Ho visto una città civile e sono ancora sotto shock

like-napoletani-post-antonio-menna.png

Il racconto di viaggio di Antonio Menna a Stoccolma è un pugno nello stomaco non solo per i napoletani ma per chi insegue un’idea di Italia che (ancora) non c’è ma viene inseguito da un’Italia che c’è (ancora) e non lo molla.

Il pezzo va letto tutto ma il suo nucleo più importante sta nella frase:

Ho visto ciascuno prendersi cura del suo tassello di interesse collettivo.

Puoi fare le riforme che ti pare, perseguire gli evasori, incarcererare i criminali, ripulire le strade, inondare di fondi e iniziative la città ma se chi ci abita non si sente parte di una collettività sarà tutto inutile.

Vi chiederete perché ho pubblicato lo screenshot dei pulsanti di sharing e commenti. Perché mi sembrava una bella chiosa all’intervento di Vincenzo Cosenza a State of The Net: uno stesso post ha 10mila condivisioni facebook, 271 su twitter (due ordini di grandezza in meno), nessuno su Google plus e 338 commenti.

Il contesto influenza il contenuto

Segnalo in ritardo il post di Leonardo a proposito della rinuncia di Dario Bressanini a scrivere sui blog de Il Fatto Quotidiano.

E’ il tipico caso in cui non si vuole vedere quanto l’aggregatore fissi il “baricentro” degli argomenti dei post, e quanto uno “spazio collettivo” diventi “punto di vista”. Il problema nasce quando il punto di vista della collettività degli scrittori si confonde percettivamente con quello dell’editore del sito.

Gomez non è un ingenuo, credo che sappia benissimo qual è l’inconveniente: quei 400 blog con l’adesivo del Fatto Quotidiano sono il Fatto Quotidiano. Il lettore li percepisce come Fatto Quotidiano. Se parlano delle nanoparticelle delle merendine, il lettore riterrà di avere letto sul Fatto una notizia sulle nanoparticelle nelle merendine. Non un’opinione: un’informazione. Capisco che un quotidiano consenta opinioni diverse, ma una merendina alle nanoparticelle non è un’opinione. O esiste – e allora mostramela, fuori la fonte. Oppure non esiste. E allora mi stai dicendo una bugia. E se sul tuo post c’è l’adesivo del Fatto Quotidiano, il FQ mi sta dicendo una bugia.

(Via I blog del Fatto non esistono.)

Di vita e di zombie

Non c’è nessun mistero della vita, ché manco Giacobbo oserebbe tanto.
Ci son le leggi della biologia, grazie alle quali ognuno di noi è qui. E c’è la coscienza, che ogni giorno ci impone di fare delle scelte.
Non imporle agli altri sarebbe già qualcosa.
Non sentirsi così tanto meglio degli altri da imporre loro in toto la nostra coscienza, sarebbe ancora un passettino di più.

(via occhio agli zombie – Il mistero della vita)

Daria è tornata, blog rinnovato, vis dialettica da vendere.

Scansatevi dalla linea di tiro.

E… Occhio agli Zombie!

Il fallimento collettivo

Dopo una notte passata a twittare e a fare proiezioni casalinghe sulle sezioni della Camera rimanenti l’Italia ingovernabile che ne esce il mattino dopo è tutto un rinfaccio reciproco.

Sto leggendo diversi post interessanti e, tra le considerazioni più ovvie, (il PD che non sa interpretare la società attuale, il PDL e Lega che subiscono un crollo di voti pauroso, l’affermazione di M5S) una frase mi frulla per la testa.

Questo è il fallimento della collettività.

Non è il fallimento di una parte politica per mancata conquista della maggioranza, non è lo sgambetto o il complotto di qualcuno (in gergo di SN “gomblotto”), non è il fallimento di un movimento nuovo che è troppo “contro” il resto del mondo.

E’ il fallimento nostro, del 100% di noi, del pensarci come collettività, come somma di pezzi che, alla fine di un’aspra battaglia, di discussioni interminabili, di dibattiti estenuanti, alla fine si deve ricomporre.

Invece per terra ci sono i cocci, pochi grandi pezzi e qualche briciola che non si sa come incastrare.

Napolitano, a 87 anni, vede sfumare il sogno di un fine mandato tranquillo e deve ricominciare a fare l’archeologo che mette insieme i cocci del reperto antico con i pezzi più nuovi.

Napolitano che non ha ancora persone di riferimento con cui aprire le consultazioni nel M5S né forse le avrà.

Cosa farà, si consulterà via Facebook o via piattaforma di Casaleggio?

Servi a poco, o tu formazione nuova, che ti professi paladina della tecnologia se non crei un ponte, un’interfaccia verso il 75% del mondo circostante che è cartaceo e verbale. Anche dopo che avessi abbassato gli stipendi a tutti, neutralizzato i parassiti, e fatto quello che sognavi di fare, hai davanti dei poveri anziani che fanno fatica anche a sapere dove hanno salvato il file della loro lista della spesa.

E te lo dice uno che di tecnologia ci vive e nella tecnologia ci è nato.

Scrive poco fa Luca Sofri:

C’è una cosa che accomuna i tre partiti che hanno preso più voti nelle elezioni di ieri: hanno tutti disegnato un nemico interno da battere, hanno tutti messo italiani contro italiani, e hanno tutti preso di conseguenza un pezzetto di voti, che non supera per nessuno il 25%. Se chiedi a un italiano su quattro di votarti perché gli altri tre sono dei delinquenti, è inevitabile che gli altri tre non ti votino: e prendi il 25%, ben che vada.
[…]
Vincere, in politica, è guadagnare consenso, convincere. Diventare maggioranza. Qualcosa cambierà quando in Italia cambierà questo. Quando qualcuno farà un progetto che pensi a tutti gli altri italiani come suoi potenziali partecipanti, quando qualcuno farà un progetto non per far vincere la sua solita curva, ma per far giocare la nazionale, quando qualcuno penserà alla condivisione del progetto con più persone come a un tesoro e non come a una minaccia, quando il nemico non sarà più una priorità né una necessità: quando la priorità sarà pensarlo amico, e farlo diventare amico. Quando nessuno troverà insopportabile questa ovvia ambizione, definendola ingenua, collaborazionista e via dicendo solo perché non ci è abituato o perché ha poco coraggio: o cambia abitudini e ci fa un pensiero, o è corresponsabile di questo fallimento. E se le cambia, siamo già sulle buona strada.

Con quella faccia un po’ così

Bersani è uno che, quando l’ho visto, lo sono andato anche a cercare su youtube, è uno che lui, quando gli fanno una domanda, non deve mai pensarci, sa sempre tutte le riposte, e le risposte io non le capisco mai, quel che vuol dire, ma il tono è sempre quello lì che lo sapeva, lui, che andava a finir così, per forza, eh, oramai, cosa vuoi fare.

Io credo di non aver mai visto la faccia di Bersani pensierosa, Bersani a me mi sembra uno che non ha bisogno, di pensare, a me a veder Bersani mi viene in mente l’espressione A menadito che usava mia mamma per dirmi che le tabelline le dovevo sapere a menadito; ecco Bersani è uno che le cose le sa così, senza bisogno di pensarci, a menadito, solo che contemporaneamente, mi sbaglierò, ma a me mi sembra uno che le cose che sa a menadito, non gliele faranno mai mettere in pratica, che lui ce li avrebbe, anche, i titoli per farlo, solo che non vogliono, e allora così dopo, ecco, guarda, per forza, che cosa ti aspettavi?

Paolo Nori » Io e Bersani

Un lungo post di Paolo Nori che scrive come Zio Bonino (o viceversa) su Pier Luigi Bersani.

Anche su Twitter la risposta deve far capire la domanda

Alle medie ero un tantino sbrigativo nel rispondere ai test di Geografia: rispondevo sul quaderno con secchi si/no alle domande nozionistiche poste sul libro. Il risultato somigliava alla pagina 46 della settimana enigmistica: una lunga fila di numeri e risposte monosillabiche 1) sì – 2) no – 3) 500.000 abitanti – 4) le Alpi.

L’orgoglio del tredicenne che infila una mitragliata di risposte giuste veniva smorzato da impietose correzioni a penna che si limitavano a dire: La risposta deve far capire la domanda.

Nell’orizzonte mentale dello scolaro esistevano il libro e il quaderno come entità inscindibili e mai avrebbe pensato che, come scritto in sé, quella sequenza di risposte sarebbe risultata un’arida lettura di difficile comprensione.

Questo ricordo mi è balzato alla mente quando stamattina ho letto il Contrappunti di Mante:

Il successo di Twitter, a differenza di quanto è accaduto a Facebook, sembra passare attraverso una logica broadcast con una spruzzata di improbabile interazione: la piattaforma acquista valore ed attenzione non tanto – come credevano i suoi fondatori all’inizio – nella costruzione di una ragnatela di rapporti interpersonali mediati da una sorta di sistema SMS allargato, ma attraverso la discesa in campo di una serie di emettitori forti, capaci di attirare l’attenzione del grande pubblico. Attorno ad essi cresce una vasta nuvola popolare di rimandi e brevi commenti, hashtag e replay di semplice esecuzione ma di modesto valore comunicativo visto che il sistema stesso mal si presta ad una conversazione organica e tracciabile.

PI: Contrappunti/ Cinguettii democratici

Dopo 5 anni di twitting, dopo ripromesse iniziali di buona comunicazione condensata in 140 caratteri, di elogio dell’haiku, la tentazione di usare Twitter come un mezzo di conversazione tramuta le nostre timeline in sequenze di risposte e hashtag che impacchettano degli eggià, anch’io, e che dire di, favoloso, LOL, etc.

Se una conversazione va oltre la prima risposta viene automaticamente frammentata e se sono un nuovo utente e mi imbatto nella conversazione fra due twitterutenti che stanno parlando ho l’impressione di due sequenze di risposte ad un quiz che si parlano fra di loro.

Se su Twitter improvvisamente compare un drappello di celebrità e giornalisti è inevitabile che questi si tramutino in iniettori di contenuto a cui gli altri utenti si limitano a fare reply per l’irresistibile gusto di interagire con il vip, di contare qualche cosa. Ai tempi del Re Sole ci si vantava perché Le Roi m’a régardé.

Su Twitter contano i contenuti come scrive Mafe e mette in pratica nella sua timeline.

Certo, anche Twitter può essere usato per tenersi in contatto con i propri amici intimi (usando il lucchetto, per esempio), ma non è la piattaforma più comoda dove farlo. L’interfaccia su Twitter oggi privilegia la condivisione pubblica dei contenuti e favorisce la scoperta di contenuti nuovi […]

Tutto questo è importante solo se abbiamo un obiettivo preciso da raggiungere, il che richiede un minimo di pianificazione editoriale: su Twitter i 140 caratteri non sono una gabbia, ma un formato che valorizza rilevanza e arguzia e premia chi sa usarli avendo ben chiaro il contesto.

Ogni volta che leggo un miniracconto di 140 caratteri, un’istantanea di giochi di parole, uno stato d’animo trasferito in un twit, rimango ammirato come da un cioccolatino di alta pasticceria, una caramella artigianale, qualcosa di piccolo e unico. E mi riprometto di fare altrettanto, ma poi…

Mentre il dito fa l’ennesimo laconico check-in su Foursquare mi assale un sussulto di coscienza: a chi può interessare dove faccio colazione? Mi reprimo e spengo la pubblicazione su Twitter.

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