Il metodo scientifico evolve per iterazioni

Una malattia terribile, grave, di cui non si conoscono non le cure, ma le cause (c’è una componente genetica, ma insomma, la cosa mi pare complessa). Una rivista scientifica autorevole che sbaglia, e non ferma la diffusione di una tesi sbagliata, capace di conseguenze gravi come la mancata vaccinazione di molti bambini. La nascita di un fronte dissidente. L’impiego di tempo, denaro, conoscenza e attenzione collettiva per gestire un errore. Tutto questo fa del metodo scientifico, quello degli illuministi, il migliore al mondo. Sbaglia, corregge, rimette a posto. È un casino, chissà quanto ci vorrà ancora per venirne a capo, ma non c’è niente di meglio. Garantito.
(Via Freddy Nietzsche » Il metodo scientifico è perfetto perché sbaglia)

E’ un’idea che può essere raccolta nel famoso motto: “scienza, funziona“.

Il metodo scientifico definisce ambito di verifica, metodo e condizioni al contorno. Non fornisce per questo verità assolute ma verifiche di ciò che puoi e vuoi verificare.

Evolve mettendo in dubbio le proprie verità approssimate e le corregge per iterazioni successive raffinando i modelli.

Come corollario possiamo escludere l’esistenza di fenomeni paranormali tramite l’argomentazione economica: se esistessero (e fossero quindi verificabili col metodo scientifico) il capitalismo ne avrebbe già approfittato:

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Cultura popolare

Stamattina, per un caso cui non sono riuscito a sfuggire, ho scelto nell’armadio tutti capi blu.

Mentre prendevo uno dopo l’altro pantaloni, camicia e golf blu, nella testa risuonava Blue (Da Ba Dee).

Non mi è venuto in mente Gershwin o Modugno, sarebbe stato troppo facile.

Ieri stavo vedendo le splendide foto del centenario del Titanic su The Big Picture; non sono neppure arrivato alle prime foto subacquee che nella testa avevo la voce di Celine Dion:

Non sono foto tratte dal film, sono foto storiche, documenti originali, pezzi esposti nella mostra commemorativa, eppure il cervello era già deviato.

E’ impressionante quanto un messaggio mainstream non desiderato possa inculcarsi nel cervello a scapito di altri messaggi desiderati e studiati. Sarà per quello che, dopo aver governato televisivamente quel tale aveva paura che i libri di storia inculcassero nozioni sgradite negli intonsi cervellini degli ignari scolaretti? Sarà per quello che i 10 milioni di spettatori di Striscia o quelli de Le Iene mi hanno sempre dato i brividi?

Al solito meglio di me l’ha detto (e disegnato) xkcd:

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Ti giro il documento

A Word file is the story-fax of the early 21st century: cumbersome, inefficient, and a relic of obsolete assumptions about technology. It’s time to give up on Word.

[…]

When a standard tool requires this many workarounds, we need to find a new standard. […] Again and again, Word is defeated by the basic job of contemporary writing and editing: smoothly moving text back and forth among different platforms. The fundamental unit of Word is the single, proprietary file, anchored to one computer. Microsoft showed users how it feels about sharing work when it switched its default format from .doc to .docx in Office 2007, locking old and new Word customers out of each other’s files.

Microsoft Word is cumbersome, inefficient, and obsolete. It’s time for it to die. – Slate Magazine

Un impietoso post su Slate rende bene l’idea della percezione che l’utenza di massa ha del vecchio Word. Un leviatano stracarico di funzionalità e orientato ancora alla produzione di documenti cartacei.

Anch’io temo come la peste dei documenti Word che ricevo via email e li apro con Pages o solo con TextEdit. Uso Word solo se costretto da interazioni strette con i collaboratori di un progetto.

La portabilità dei dati e la necessità di scrittura collaborativa spinge verso l’uso di strumenti centralizzati come wiki e blog. Il concentrarsi sul contenuto porta a preferire linguaggi di markup.

Ultimamente ho deciso di imparare il Markdown e di buttarmi sul minimalismo bianco di iA Writer.

Con quella faccia un po’ così

Bersani è uno che, quando l’ho visto, lo sono andato anche a cercare su youtube, è uno che lui, quando gli fanno una domanda, non deve mai pensarci, sa sempre tutte le riposte, e le risposte io non le capisco mai, quel che vuol dire, ma il tono è sempre quello lì che lo sapeva, lui, che andava a finir così, per forza, eh, oramai, cosa vuoi fare.

Io credo di non aver mai visto la faccia di Bersani pensierosa, Bersani a me mi sembra uno che non ha bisogno, di pensare, a me a veder Bersani mi viene in mente l’espressione A menadito che usava mia mamma per dirmi che le tabelline le dovevo sapere a menadito; ecco Bersani è uno che le cose le sa così, senza bisogno di pensarci, a menadito, solo che contemporaneamente, mi sbaglierò, ma a me mi sembra uno che le cose che sa a menadito, non gliele faranno mai mettere in pratica, che lui ce li avrebbe, anche, i titoli per farlo, solo che non vogliono, e allora così dopo, ecco, guarda, per forza, che cosa ti aspettavi?

Paolo Nori » Io e Bersani

Un lungo post di Paolo Nori che scrive come Zio Bonino (o viceversa) su Pier Luigi Bersani.

Music comes first

Perchè, e questo ve lo dico alla fine, ma sarebbe bello lo capiste dall’inizio, una bella canzone ha le note belle, anche se decantate la lista della spesa. Altrimenti, è solo l’ennesima noiosissima opera onanistica con la quale impesterete You Tube ed affini.

Come imparare a scrivere canzoni | La Flauta

Il lungo post de la flauta è consigliatissimo a chi intende affollare i casting di x-factor e simili e tutti gli adolescenti dentro di noi che hanno provato almeno una volta a scrivere canzoni.

Il sottoscritto è noto per saltare a piè pari i mostri sacri come De André, Guccini e Battisti (diciamo quasi tutta la musica italiana in generale) perché gli sembra che parlino troppo.

Salvo poi perdere la testa per chi fa musica di prima grandezza, come gli Elii, musica che permette loro di dire qualsiasi cosa ancor prima di metterci le parole.

Ché gli archi, le note, la cadenza avrebbero già reso perfetta scrambled eggs.

Quattro amici al bar

Sono contrario al matrimonio e basta: che sia etero o gay. Sono contrario, cioè, all’assurdità per cui in Italia debba esistere un solo tipo di contratto matrimoniale – perché un matrimonio è anzitutto un contratto – quando al mondo non esiste solo l’unione di due persone con l’obiettivo della progenitura: esiste un mercato di affetti e relazioni che avrebbe bisogno di un ombrello giuridico per uomini e donne, conviventi, non conviventi, giovani o vecchi che vogliano tenersi compagnia o anche solo dividere le spese, eccetera. Assistere un partner malato, lasciargli un’eredità o la pensione, persino visitarlo in carcere od organizzargli i funerali: tutti diritti negati (in Italia) che non c’entrano niente col matrimonio gay o con l’adozione dei figli.

(Via A tempo indeterminato – Filippo Facci)

Eravamo quattro genitori al bar e bevendo il solito cappuccio di soia commentavamo su quanto ci stesse stretta l’idea di matrimonio come unica forma di coesione sociale.

Dei quattro due erano sposati da poco, due (ancora) no, tutti e quattro con figli plurimi abbiamo portato avanti una nostra idea di famiglia.

E ci raccontavamo di zie sposate per interesse, di padri denunciati due volte dal proprio figlio e di altri elementi a sostegno dell’idea che il matrimonio, da solo, non garantisce una beata fava.

Sono le persone a fare la società, non le etichette. Purtroppo, per avere il beneficio di una protezione legislativa, occorre appiccicarsi una sola etichetta.

Nel nostro caso l’etichetta è un vestito che ci va comodo e può far piacere indossare, non sono mica un oltranzista. E’ l’obbligo collettivo, la gentile pressione del legislatore sulla società a sposarsi che non mi trova d’accordo. A me costruire una famiglia è andata bene e mi è piaciuto (e mi sta piacendo un sacco, potrei anche sposarmi, ora che ci penso 🙂 ). Chi ha detto che è una strada che debba andare bene a tutti e soprattutto funzionare per tutti?

Raramente mi trovo d’accordo con Facci, ma il suo post di stamattina A tempo indeterminato ne ha fatto il quinto amico al bar.

Convinti detentori di verità assolute

L’amore di un uomo e una donna è il fondamento della vita umana, mentre le relazioni omosessuali contrastano con la legge morale naturale. Equiparare le unioni gay al matrimonio va contro valori basilari che appartengono al patrimonio comune dell’umanità.

Via “Oltretevere – Costituzione ferita”

Questo è solo un pezzo del virgolettato di monsignor Luigi Negri, vescovo ciellino di San Marino-Montefeltro, commissario Cei per la Dottrina della fede e presidente della fondazione internazionale Giovanni Paolo II per il magistero sociale della Chiesa..

A leggere per intero l’intervista con le sue parole, si ha l’impressione che la chiesa cattolica qualche problemino di fondo con l’omosessualità ce l’abbia ancora nel 2012.

Se, alla luce delle scoperte tecnologiche, conquiste sociali, evidenza dei fatti, libertà di espressione e circolazione delle idee di questo millennio, ancora credi che:

  • esista una verità assoluta
  • esista un legge naturale assoluta
  • sei il dententore e interprete di entrambe

allora non potrai che avere comportamenti rigidi, escludere una fetta consistente di popolazione dalla tua piena approvazione e comunione, negare funerali e matrimoni, interferire nella vita materiale delle persone. E fare pressioni sui liberi poteri di uno Stato sovrano di cui tu sei ospite.

Siamo stati tutti piagnoni, l’importante è smettere

Io me la sono sempre ricordata questa cosa, quella che ad un certo punto si diventa adulti e si deve anche imparare ad essere adulti. E cominciare a gestire la propria vita e i rapporti con gli altri in modo molto meno strillato. Molto men “io sto male voi dovete capire”. La gente non capisce, e viva dio. Passeremmo il nostro tempo a stare dietro a chi ci è e a chi ci fa. Tra stare male e stare bene, è più difficile stare bene. Nessuna giustificazione, nessuna attenzione particolare da parte degli altri, nessun occhio di riguardo: stare bene, bastarsi, con i propri problemi, tutti i giorni lì con te. E trovare un modo, un passo alla volta, senza tragedie greche.

(Via Piangiamo insieme, così poi ci diamo di gomito | Sasaki Fujika Blog | © 2003-2012 | ver 4.0)

Un post da applauso che dice con le parole giuste una piccola grande verità nient’affatto scontata.

Qua siamo in sintonia con Sasaki non tanto perché da figlio di addetti ai lavori si riceve per osmosi una certa sensibilità su questi temi, non tanto perché la fase piagnona e vittimistica l’abbiamo attraversata tutti in uno o più punti dei nostri enta, non tanto perché abbiamo detto tutti “non sapete quanti guai ho io”.

Ma perché la società e la scuola in cui siamo cresciuti ci hanno insegnato un sacco di belle cose come fare i compiti, farli in tempo, prendere dei bei voti, essere persone per bene. Quello che non ci hanno insegnato è che la vita è una quest, che si va da qualche parte, e se non sai dov’è quella parte, anche in nessun posto speciale: ho sempre desiderato andarci è una bella meta comunque. Per andare da qualche parte bisogna metterci del proprio, prendersi delle responsabilità, fabbricarsi delle responsabilità se non sono già disponibili.

E se non capisci come fare, non devi mai smettere di guardarti dentro e ora che ci sono la rete, i blog, twitter e tutto il resto siamo tutti nudi di fronte a noi stessi e non è più pensabile smettere di cercare, dentro e fuori di noi.

Perché quando tocca a noi decidere e solo a noi, non ci sono alternative. Stare male è la parte facile e ti fa stare peggio, scegliere è la parte difficile ma ti fa stare bene, per sempre.

P.S.: con questo post Simone si scrolla di dosso l’autodefinizione di “persona triste”.

L’uomo col microfono

[…] perfino il conduttore del Festival che si improvvisa costituzionalista di fronte agli italiani senza avere la minima idea di cosa sta dicendo è parte del meccanismo di rimozione secondo il quale ognuno, una volta dotato di microfono, può dire quello che gli pare ad una platea immensa. L’invasione di campo delle competenze altrui è stata una costante velenosa di questi ultimi anni […]. La speranza è che ora, fatto il governo tecnico degli italiani, si facciano gli italiani tecnici che, almeno sui giornali ed in TV, esercitino la decenza minima di parlare delle poche cose che conoscono e tacere su tutte le altre.

Via Celentano davanti a un bianchetto – manteblog

Ieri sera, vincendo la stanchezza di una giornata lunga ma piacevole, mi sono ritirato nella stanzetta virtuale dove bastoniamo in diretta gli spettacoli musicali e affini.

A detta di tutti i partecipanti il divertimento è stato rovinato dalla scarsissima qualità di questo Sanremo 2012: dalle canzoni, dai tempi, dalle battute e dal comizio di Celentano. Arrivare alla sigla finale è stata una vera fatica fisica. Eravamo abbattuti e arrabbiati di aver buttato via una serata.

Mi chiedevo per quale ragione affidare oltre 50 minuti di scaletta mal scritta, mal recitata e mal cantata (le stecche e la voce stanca si sprecavano) ad una vecchia gloria che non stupisce più con trovate surreali, con silenzi imbarazzanti e nemmeno con lo swing.

Ho dato un’occhiata su Twitter dove imperversava lo stesso dibattito a base di imbarazzo e stupore. Non certo per i temi trattati ma per la sciattezza dello spettacolo offerto, stramato, sconclusionato, brutto da fare rimpiangere l’edizione 1989 dei quattro presentatori figli d’arte.

E infine la solita, prevedibile, metrica degli ascolti:

la botta di ascolti serve oggi per i listini Sipra del prossimo anno

Via Twitter / @martacagnola

Il Manifesto e l’evoluzione dei giornali

Oggi ho letto il terzo di tre post che mi sono piaciuti sulla crisi finanziaria del Manifesto: Leonardo: Manifesto del conservatore di sinistra

Dopotutto il Manifesto su internet non ha affatto una cattiva presenza. Forse il problema è dei lettori che il Manifesto si è scelto, si è formato in tutti questi anni. Sono loro che dovrebbero condividere di più il Manifesto, e mostrare ai redattori magari un po’ scettici che la versione web può funzionare, può attirare più lettori, può rimettersi al centro del dibattito culturale (perché politicamente resterà sempre un po’ ai margini, ma una volta il Manifesto era “la” cultura di sinistra). Sono i lettori che devono cliccare su quegli accidenti di tasti colorati che ci sono già, sono lì apposta, e provare a portare un po’ più di Manifesto nelle praterie del web, dove tanta gente ne ha bisogno ma non ha la minima idea e finisce per farsi intruppare da Beppe Grillo e altre biowashballs. Sono i lettori che devono smettere di finanziare il Manifesto cartaceo più o meno come si dà l’elemosina a uno che te la chiede, con la prospettiva di chiedertela anche domani e dopodomani e ogni volta che la libertà d’informazione sarà minacciata.

Il post chilometrico e verboso di Leonardo (da leggere tutto, come al solito) riassume alla perfezione il rapporto con una testata inteligente, critica, pesante e verbosa che ha sempre abitato casa mia da che io ho memoria.

Il consiglio più diffuso è quello di trasferirsi sul web come inevitabile evoluzione darwiniana dei giornali, tesi sostenuta anche da Mantellini:

[…] i giorni scorsi la direttrice de Il Manifesto ha ripetuto la solita frase che si dice sempre in questi casi: “stanno uccidendo il pluralismo”. È una sciocchezza: se riusciamo ad astrarci un istante dal singolo caso in questione, l’informazione italiana non è mai stato tanto pluralista quanto lo è oggi. Per un singolo giornale di carta che non trova lettori (perché i poteri forti lo stritolano, perché la TV mangia tutta la pubblicità, perché Berlusconi non c’è più ecc.) ci sono dieci giornali di bit che raggiungono ogni giorno dieci o cento volte i lettori de Il Manifesto. Dieci o cento volte, numeri reali.

[…]

Quando la stampa difende i propri privilegi contro ogni logica rende probabilmente un cattivo servizio ai suoi lettori.

In realtà se è vero che i numeri reali portano la gente sul web quando il web è gratuito, più difficile è fondarci un’impresa basata su entrate certe. Il navigatore odia sia i banner lampeggianti (le home page dei principali quotidiani stanno diventando illeggibili) sia i paywall e i contenuti premium a pagamento.

Un’alleggerimento e un ripensamento della struttura editoriale sono inevitabili nel caso del trasferimento dalla carta al web. E allora che fare delle persone che lavorano ora nella carta?

Inoltre: la metrica del mercato non è detto che sia l’unica. Certo è l’unica che diamo per scontata, come per scontato si da il metro dell’audience per la televisione. Pierluca Santoro, si chiede se il Mercato sia Perfettibile in un post ricco di analisi e proposte:

La revisione sui criteri di finanziamento ai giornali a mio avviso deve tenere in conto, in ordine sparso: 1) no a finanziamento su tirature, se del caso su diffusioni 2) finanziamento crescente al diminuire dell’affollamento pubblicitario 3) bonus su finanziamento dei cittadini; per esempio se X numero di cittadini gira il suo 8 per mille a favore di un quotidiano c’e un bonus statale 4) no a finanziamento di organi di partito, consono già i finanziamenti ai partiti non c’è bisogno di una duplicazione 5)….[integrate pure nello spazio dei commenti se ve ne vengono in mente altri di criteri]

Insomma, se la perfezione del mercato è assolutamente perfettibile, non è un caso probabilmente se i primi ai quali si cerca di far pagare il prezzo siano proprio coloro che hanno dimostrato attenzione ed etica nel proprio approccio.

L’idea importante è che ci possa essere una gradualità nel passaggio da un’editoria sostenuta da finanziamenti pubblici a un’editoria autonoma. E’ probabile che le microtestate di partito o altri giornali di rappresentanza non ce la facciano ma chi è dotato della squadra migliore, di gente che sa scrivere ed interessare ce la potrebbe fare.

Ammesso e non concesso che il Mercato sia l’unica metrica da seguire, quello che mi stupisce è che tutti questi ragionamenti non siano mai accompagnati da simulazioni, grafici, previsioni nel merito. E’ inutile brandire il totem del Mercato se non metti alla prova (simulando, senza che nessuno si faccia male) i parametri che dovrebbero muovere il mercato stesso.

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