Jaiku has moved to Google servers

Qualche giorno fa si speculava sulla migrazione in corso di Jaiku, servizio di microblogging acquisito da Google ormai molto tempo fa e mai integrato nella propria infrastruttura.

Gli unici segni di cambiamento erano la chiusura dei gruppi e la scomparsa di nuovi inviti.

Ieri mi arriva questo mail ufficiale che sancisce il primo passo della migrazione: Jaiku gira sui server di Google, preparandosi a funzionare sullo stack Google Apps Engine:

Dear bolsoblog,

We’ve been working on the Jaiku service over the weekend after finding an issue with one of our servers on Friday. As part of the solution, we’re moving Jaiku to a Google data center.

This is something that we’d planned to do anyway, as part of our future transition to Google App Engine. Now that we’ve moved, we’ll need to ask you to review and accept a new terms of service and privacy policy.

As a special thank you for your patience, we’d like to throw a little nest-warming party and open unlimited invitations for Jaiku.

Please sign in at http://jaiku.com to review and accept the new terms.

Special notice to users of Jaiku Mobile: to reconnect Jaiku Mobile after agreeing to the new terms, select ‘Go Online’ from the Options
menu on your phone.

See you there!
Jyri and the Jaiku team at Google

New Jaiku Privacy terms
New Jaiku Privacy terms

Una volta accettati i nuovi termini di servizio si ritorna sulla propria home di jaiku, dove nulla è per ora cambiato se non la possibilità di invitare un numero illimitato di amici.

Jaiku mi ha sempre incuriosito, come utente di Twitter che ha dovuto subire gli alti e bassi di questo servizio: in Jaiku ci sono tutte le cose che mancano (i commenti, i canali, il riassunto di chi hai come follower e come friend, le icone di status). Secondo me ha sempre avuto i numeri per sfondare, ma nel frattempo è uscito ed esploso il fenomeno FriendFeed: meno strutturato, più immediato, con un meccanismo di commenti a dir poco virale.

Sono curioso di vedere quanta vecchia “anima” di Jaiku verrà sacrificata alle feature social che piano piano hanno reso imprescindibili gmail, gtalk e Google Reader (shared items, email di ogni item, lista di amici con relativi shared items, etc.) e se l’impasto funzionerà.

CSI Bologna – un racconto di fine estate

Fresh World

Originally uploaded by Roc 78.

Nel palazzo di sei piani dove vivono i miei genitori c’è un vecchio ascensore. le porte di legno pesante con la finestrella, gli interni color ciclamino, i meccanismi quasi interamente analogici, che se non lo chiudi bene rimane fermo al piano, il motore rimodernato da poco con la ripresa degna della deriva dei continenti.

Questa vecchia gloria dei trasporti condominiali non brilla per capacità di ricambio d’aria tanto è vero che quando passa l’ascella pezzata di un condomino accaldato il ricordo permane a lungo. In agosto col caldo di Bologna non è cosa infrequente.

Orbene giusto ieri si andava a festeggiare il compleanno di Cesare e si coglieva un odore nell’aria che andava oltre i limiti previsti dall’ARPA. Dicono che hanno un cane odoroso, quelli di sopra. Vivo o morto?, penso io. Quattro piani passano in fretta e il compleanno, le candeline e la torta fanno dimenticare la tanfa che ferma gli insetti a mezz’aria.

Il buon blog è fatto di paragrafi

Una lista compilata da Merlin Mann in seguito ad una richiesta di consulenza per il nuovo servizio Blogs.com di Six Apart.

Sono 9 punti, tra cui campeggia il mio preferito:

4. Good blog posts are made of paragraphs. Blog posts are written, not defecated. They show some level of craft, thinking, and continuity beyond the word count mandated by the Owner of Your Plantation.

La divisione in paragrafi mi è sempre piaciuta: da quando ho scritto la tesi in LaTeX, ai primi esperimenti con l’HTML (entrambi i linguaggi isolano i paragrafi con righe vuote, nel rendering della pagina) ho trovato questa forma di divisione atomica delle unità di informazioni particolarmente utile nella lettura.

Mi è sempre parso di capire che fosse una tendenza anglosassone. Da noi si cerca invece di scrivere documenti il più simili possibile a un libro stampato.

Faccio molta fatica a leggere i blog che non vanno mai a capo, colpendoti negli occhi con quel “mattone di inchiostro”. Naturalmente faccio eccezione per gli amici più cari e le compagne di vita.

La lettura a scansione, indispensabile quando si seguono molti blog, è molto più difficile senza una corretta divisione in paragrafi.

Gli altri elementi della lista di Merlin sono focalizzati sulla forza della personalità del blogger e sulla determinazione a innovare e a coltivare i propri argomenti preferiti. Condivisibile ma decisamente ispirata al “darci dentro”, al “farcela a tutti i costi” che caratterizzano il modo di fare d’oltreoceano.

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MobileMe – altri 60 giorni gratis

Nella notte mi è arrivato un asciutto comunicato di Apple che, come già successo al momento del lancio, si scusa per i problemi del nuovo servizio MobileMe e offre 60 giorni gratis come omaggio di scuse.

MobileMe offre 2 mesi gratis per scusarsi

Nella mail è contenuto anche un link verso una pagina con maggiori dettagli.

La durata del servizio si allunga così a 15 mesi, estensione che fa molto comodo a noi vecchi utenti che ogni anno ci interroghiamo sul perché rinnovare, pagando uno dei costi nascosti di MacOS X, un servizio che ha ormai diversi omologhi gratuiti nel web2.0.

Nel mio caso la decisione di inizio ottobre si sposta a inizio 2009 e mi riprometto di provare a fondo tutte le feature di MobileMe. L’integrazione di tutte le componenti e le applicazioni del Mac OS è la cosa che mi piace di più del mondo Apple, la ragione per cui mi ostino a usare Mail e Safari invece di Thunderbird e Firefox, o, in ambito leggermente diverso (applicazioni Apple built-in rispetto ad applicazioni Apple a pagamento) iMovie invece di FinalCut Express.

Il viaggio nel tempo con gli AppLE PIES a Brentonico

From Me To You

From Me To You

Originally uploaded by BolsoMan [hanfed].

Mi è toccato fare il fan fino in fondo ma non me vergogno: vic aveva preavvertito Luca, il batterista degli Apple Pies cui ho dovuto portare i suoi saluti.

Una buona ora di chiacchiere, fumando sigarette sotto la pioggerellina brentegana, ha chiuso due ore di performance beatlesiana (gli Apple Pies preferiscono non chiamarlo concerto). Il tipico incontro tra fan: ma l’occhio a mezz’asta di Paul lo fai apposta o è tuo? No, in effetti c’è un po’ di studio… e la posizione delle gambe nella parte 1963? E’ colpa degli stivaletti? No, anche quella l’abbiamo imparata guardando i DVD… E comunque all’Hollywood Bowl dicono “One was black and white and one was coloured” eggià, eggià. E l’errore nell’assolo di Please Please me era voluto, mica me la contate giusta… anche quello, conferma ManuPaul.

Ticket To Ride

Hanno inciso nello studio 2 di Abbey Road, questi ragazzi, confessando un tonfo allo stomaco che li ha presi come al sottoscritto davanti alla porta degli studios molti anni fa. E si parla del perché a noi fan succede così, del perché nasce il bisogno di rievocare con precisione del modellista che ricostruisce un B-17 fino all’ultimo finestrino.

Perché con i Beatles è così, perché – dico io – c’è stata una meraviglia in un passato non vissuto, inesorabilmente terminata e che ogni fan vorrebbe far rivivere, a costo di rapire il Doctor Who e viaggiare nello spazio tempo anche solo per un attimo. Sentire I’ll Be Back in 3/4 in Anthology 2 ti fa sbirciare i Beatles dal buco della serratura. E per pochi minuti la magia ritorna e tu se lì con loro. Questo è lo spirito dei fan.

Non è il museo delle cere come temevo all’inizio, i ragazzi si danno un limite alla somiglianza fisica, alle mosse, e perfino all’aderenza filologica delle canzoni. ManuPaul non intende suonare il basso con la sinistra, Luca si tiene il fisico che ha. Nessuno, parafraso io, intende diventare il tristerrimo sosia si Elvis che anima i casino di Las Vegas.

Hoffner bass

Studiano le canzoni ascoltando i dischi (e anni addietro, le cassette), non si basano sugli spartiti, che tuttavia consultano. Insieme concordiamo che al tempo di youtube è tutto più facile ma essere Beatle Fan negli anni ’80 voleva dire non sapere il vero colore della chitarra di George Harrison o fotografare il video della TV in mancanza di videoregistratore quando la RAI mandava lo spezzone di un concerto.

E il loro concerto anzi, performance, è trascinante: parte in sordina, con i primi pezzi della Beatlemania dal 1963 al 1965 eseguiti con rigore filologico di note, coretti e introduzioni con accento di Liverpool (quelle che si sentono nei DVD, mica inventate). Partono con From Me To You, Please Please Me poi vanno su I Want To Hold Your Hand, She Loves You, All My Loving.

Beatles boot

Le note ci sono tutte, le mosse anche, i vestiti seriosi e attillati pure con tanto di stivaletti. Non sono i Beatles, certo ma ti regalano qualcosa: ti danno una gocciolina di emozione di quello che avrebbe dovuto essere trovarsi là in quel momento. Oggi ci sono i DVD, ma non è come stare di fronte al sound di un concerto dal vivo. Mi si passi il paragone blasfemo: è come mangiare in un ristorante italiano all’estero… quando l’Italia dovesse non esistere più, sprofondata per sempre negli abissi. E’ meglio di niente, ma è soprattutto un atto d’amore a quello che è stato. Ecco perché performance e non semplice concerto.

E allora bravi ragazzi, vi si perdona tutto, le voci non perfette, la personalità di Paul che prevarica su quella di John (nel 1964 sul palco il secondo prendeva in giro il primo), i coretti diversi da come li avrei fatti io, ma ogni fan avrebbe fatto a modo proprio (e ce lo siamo detti dopo).

Dopo i primi pezzi i ragazzi si scaldano, cominciano a suonare per loro (quindi per noi fan) più che per la filologia, fanno cantare Twist and Shout al pubblico (che fa le quattro note all’unisono anziché in coro ma non stiamo a sottilizzare che gli astanti sono in soprannumero) per passare a I Feel Fine, Ticket To Ride e traghettano il sogno attraverso Rubber Soul (con Michelle e Girl), saltando Revolver e Sergeant Pepper (volutamente, c’è uno spettacolo dedicato) fino al secondo periodo beatlesiano.

Penny Lane

Qui i parametri sono molto più liberi, gli Apple Pies passano da una Across The Universe acustica a Hello, Goodbye, Penny Lane, Lady Madonna, fanno tutte le gemme di George (Something, Here Comes The Sun – che non è la musica di un’assicurazione, dannati spot pubblicitari – e, favoloso, While My Guitar Gently Weeps), si scatenano in Come Together e Get Back. Il pubblico li segue, la serata è ingranata perfettamente, la finzione è diventato rituale collettivo, un sogno colorato. E funziona. E si aspettano i bis.

Mi mancavano giusto Back in The USSR e Magical Mystery Tour ma per i bis hanno deciso di schierare i pezzi più soft, e partono con un raffinato Free As A Bird con mix sul piano di Let It Be (con assolo versione album non singolo). Alla fine tutti si canta in coro Hey Jude, diretti da un Paul che è in realtà quello degli ultimi concerti di questi anni.

Thank you all we hope we passed the audition

Una serata tutta hit, praticamente le due raccolte quella rossa e quella blu, dico io, One meno qualche pezzo, ribatte Luca. Ma fanno anche le serate only for fans, dove ci sono solo pezzi da intenditori, come quelli del grandioso Live At The BBC (di cui gli rifaccio gli annunci di Paul), serate che si imparano dalla loro mailing list. Da andarci solo per sentire, Hippy Hippy Shake o I Call Your Name. ManuPaul sostiene di sostiene di sapere anche tutta You Know My Name (look up the number) ma lo voglio sentire nel pezzo parlato.

Basta parole, tutte le altre foto sono al loro posto, su flickr.

I blog come proiezione del sé

Scrivere su un blog significa (pensare di) raccontare cose tue a persone che non conosci e che leggendoti penseranno di farlo, mentre tu rimarrai all’oscuro anche della loro esistenza. Ma davvero raccontiamo qualcosa di noi? La scrittura è un mediatore in/consapevole: io quando scrivo davvero non so chi è che parla, chi è che sceglie cosa dire, certo non so perché alcune cose le scrivo e altre no.

Questo bellissimo post di Mafe ha riacceso una serie di riflessioni che la mia mente sta impastando insistentemente in questo periodo.

Conscio di quanto tempo sono in grado di perdere su una passione sociale come il blogging, spesso mi sono chiesto “perché lo faccio?” Ma soprattutto “cosa c’è di così interessante nei blog?”.

Mettiamo da parte per un attimo la blogosfera del gossip, gli eventi, le foto degli eventi, le chiacchiere, le dietrologie, le news tecnologiche, l’iPhone. Cosa resta?

Resta una rete di persone che scrive e si legge più o meno regolarmente, che riflette su sé stessa e il mondo (siano le notizie mainstream dei siti dei maggiori quotidiani, siano notizie di nicchia, sia un episodio capitato dal lattaio sotto casa).

Cosa c’è di così interessante da tenermi incollato dal feed reader?

Ci sono le persone.

Ci sono i punti di vista, le loro idee, la loro peculiare maniera di raccontarle o di commentarle.

Più vado avanti a conoscere il fenomeno della blogosfera, più mi appassiona conoscere persone, quelle che mi piacciono, quelle che mi lasciano indifferente, quelle speciali, quelle che ti danno la scintilla di genialità nei loro post. Quelle che ti fanno capire le cose meglio di te.

Sono fortemente convinto che tenere un blog sia una forma di proiezione del sè.

Non è detto che sia una proiezione integrale: possono essere dei flash, proiezioni parziali, proiezioni deformate, frammenti. Sono comunque parti di noi che regaliamo al mondo nei nostri blog, perdendone immediatamente il controllo per affidarlo al Grande Impastatore della Rete, Google.

Proiettiamo noi stessi con il template che scegliamo, fra i mille della template gallery o tenendoci quello di default.

Proiettiamo noi stessi con la frequenza dei post, o la frequenza dei commenti nel nostro blog e in quello altrui (invadenti, timidi, controllori del proprio spazio, istrioni).

Proiettiamo noi stessi con lo stile dei nostri titoli.

Proiettiamo noi stessi con la tipografia dei nostri post, andando a capo spesso, non andandoci mai, blindati nel nostro rettangolo di caratteri, riempiendo il post di link a fonti esterne.

Proiettiamo noi stessi scegliendo dove postare, articolando il nostro modo di raccontare fra blog, foto, chat e servizi come twitter e friendfeed. Dimostrando ordine e meticolosità o caos creativo, aprendo nuove piste o facendo i gregari.

Proiettiamo noi stessi nelle scelte degli shared items, o dei reblog su tumblr o nelle altre forme di segnalazione di contenuti. Come un regista che non fa anche l’attore, non lo vediamo mai davanti alla macchina da presa ma ne cogliamo lo sguardo nelle scelte stilistiche: ritmo, sceneggiatura, dialoghi, montaggio, inquadrature.

Infine, proiettiamo noi stessi nella scrittura, elemento che potrebbe stare in cima a questa lista ma che ho voluto mettere in fondo per sottolineare il suo possibile ruolo di elemento di una tavolozza del sé: i contenuti della nostra scrittura possono non appartenerci, non rivelare nulla di noi in senso diretto ma al contempo dire molto della nostra personalità, della scelte che facciamo nella forma, nel fraseggio, nel risalto di un argomento rispetto ad un altro.

Ci sono blogger che cercano evidentemente di dissimularsi dietro la scrittura o di mostrare solo le parti di loro con più appeal.

Secondo me è una partita persa a tavolino. Occorre un editor per questo, qualcuno che ti guardi da fuori e scelga che merce mostrare di te.

Si possono mantenere privati gli avvenimenti della vita privata pur esponendo il sé nel proprio blog e con questo leggere i propri comportamenti mescolati a quelli degli altri. Ci si impara moltissimo e non ci si perde niente.

Bologna, alla stazione il 2 agosto

Questo edificio rimarrà dov'è

Ecco il fotoracconto del corteo del 2 agosto.

C’era parecchia gente quest’anno, forse complice il caldo non ancora torrido, c’erano i parenti, le autorità, adulti e bambini, partigiani giovani e vecchi, associazioni, striscioni, colori.

Proprio stamattina al lavoro un amico mi ha chiesto perché ci vado, se ho motivi personali per farlo.

Gli ho risposto che non sono parente né conoscente delle vittime ma che avere 12 anni e vedere la propria città sventrata è un’esperienza che ti segna.

L’esercizio della memoria attraverso il rituale di una lenta camminata estiva è un’esperienza che arricchisce sempre.

Ogni persona in più che sotto il sole d’agosto accompagna in Piazza Medaglie D’Oro chi ha ancora le ferite in corpo fa una cosa buona.

E noi continueremo a farlo, programmando le ferie di conseguenza, anno dopo anno.

A Bologna, il 2 agosto si arriva anche a piedi, partendo tre giorni prima.

Il percorso inverso l’abbiamo fatto in macchina, percorrendo nel pomeriggio un’autostrada quasi vuota, il giorno del grande esodo in direzione Milano, con buona pace del bollino nero.

C’era un bambino da salutare, una mamma e un papà da abbracciare e qualche domanda di Cesare da evitare.

Questa è stata la nostra staffetta.

Da Paullo a Bologna

Appuntamento il 2 agosto a Bologna

Stazione di Bologna 2 agosto 1980

Come ogni anno domattina andrò alle celebrazioni per il 2 agosto, sfidando l’Italia in vacanza e la città semideserta.

In genere sono sempre andato con la famiglia e con un amico. Il giorno prima, il primo agosto, ci si passa la voce: sei a Bologna domani? Ci vediamo in Via Indipendenza o in Piazza?

Quest’anno ho deciso di scriverlo sul blog. Chi vuole unirsi lo scriva nei commenti. E’ un’esperienza importante per sentirsi bolognesi, per stare vicino ai familiari delle vittime, per non dimenticare in che razza di paese abbiamo vissuto e ci ostiniamo a vivere.

Ci vediamo alle 9:00 all’incrocio via Indipendenza – via Ugo Bassi, di fronte a piazza Nettuno. Alle 9:15 parte il corteo.

Manifesto 2008 celebrazioni strage 2 agosto 1980

Thank you, Randy Pausch

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Randy Pausch è morto all’alba del 25 luglio. La notizia è arrivata da un brusio delle reti sociali per culminare nel tonfo dell’annuncio ufficiale.

Tutti noi che avevamo seguito la vicenda di una morte annunciata temevamo questo momento. Per quanto mi riguarda, da quando è arrivato non sono riuscito a pensare ad altro.

Chi sia Randy Pausch in queste ore lo stanno spiegando in molti (TechCrunch). Ottime sinossi sono state scritte da Luca Chittaro, Wikipedia oltre che da Randy stesso (ma la sua scarna home page sarà sovraccarica in queste ore) e dalla sua università. In Italia ne parla il corriere.

Randy era professore di informatica, interazione uomo-computer e design presso la Carnegie Mellon University (CMU) di Pittsburgh, Pennsylvania. Un uomo abituato a mettere a frutto ogni momento della sua vita, a considerare il tempo come un tesoro da amministrare e le esperienze di vita come vera fonte di ricchezza. Una persona così si trova a combattere una battaglia contro il cancro al pancreas, dapprima vincendola e poi, nell’estate 2007 perdendola vedendosi assegnare un massimo sei mesi di vita in buone condizioni.

Con una vita familiare appena avviata (una splendida moglie e tre figli piccoli) Randy decide di accettare la sfida e di mettere a frutto per il futuro ogni minuto di quel tempo prezioso, ritardando la malattia il più possibile e cercando il senso della propria vita.

Randy rende pubblico il bilancio della sua vita in una lezione pubblica alla Carnagie Mellon University che diventerà uno dei video più visti di Internet (si veda la traduzione in italiano sul blog di Alessandro Giglioli). La lezione prende ironicamente il nome di “L’ultima lezione”, dal nome che in passato veniva dato a quel ciclo di conferenze. Il titolo ufficiale è invece “Realizzare veramente i sogni dell’infanzia”, vero manifesto del pensiero di Randy.

A quella lezione fa seguito un’altra lezione sulla gestione del tempo personale, un tema che a Randy è sempre stato caro e che ora si è rivelato centrale nella sua vicenda umana.

Dopo la pubblicazione in primavera 2008 del L’ultima lezione in forma di libro (una trascrizione ampliata della lezione, piena di riflessioni e approfondimenti, si veda il ricco sito in italiano di RCS), in giugno Randy fa un ultimo intervento pubblico che racchiude la summa del suo pensiero. Il video dura pochi minuti ed è forse il più bello e toccante dei tre. In risposta a chi gli chiedeva come avesse battuto la Grande Mietitrice (essendo ancora vivo ben oltre le previsioni iniziali), Randy ha risposto:

Non battiamo la Mietitrice vivendo piu’ a lungo, la battiamo vivendo bene e pienamente, perche’ ella verra’ per tutti noi. La domanda e’ quindi ‘Cosa fare tra il momento in cui nasciamo ed il momento in cui la Mietitrice si fara’ vedere?’, perche’ quando si fara’ vedere sara’ troppo tardi per fare tutte le cose che avevamo in mente.

(traduzione di Luca Chittaro)

La cosa che più colpisce leggendo o ascoltando queste parole è la loro semplicità. Abituati ad un punto di vista fondato su notizie flash, su titoli di giornale, su 120 secondi di servizi televisivi (compresi noi blogger, almeno io confesso di non essermi ancora liberato di questa malattia) non ci aspettiamo che le risposte alle grandi domande della vita abbiano questa apparente banalità, questo look così casual.

Lo sbaglio sta nel credere che la risposta a queste domande sia così sintetica da stare in un biscotto della fortuna. La ricompensa sta nel viaggio, non nel traguardo. Se ti paracaduti su quest’ultimo non scoprirai un bel niente e rischierai di commentare con un “tutto qui?”. Se non ascolti le lezioni di Randy una dopo l’altra, se non leggi il libro, non puoi capire appieno il tesoro che ti viene regalato.

Dev’essere per questo che persino al TG2 Mizar, la rubrica notturna dei libri del TG2, hanno presentato il libro di Randy Pausch con “ora vi facciamo vedere un video senza commento, vi preghiamo di guardarlo fino in fondo”. Per ovvie ragioni televisive il video era una sintesi dell’ora e tre quarti della lezione (il video sintetico è quello del sito RCS). Ma il messaggio era valido: solo vedendo e vivendo quella lezione si poteva cogliere la bravura di Randy, la forza d’animo, l’amore per i suoi figli, la voglia di mettere a frutto per sé e per gli altri ogni secondo che gli restava. Con il sorriso sulle labbra per di più.

E’ da quella notte che ho in mente questo post. E’ da quando ho visto, come tutti, la lezione di Randy su youtube con le lacrime agli occhi che mi chiedo quali siano gli elementi che l’hanno resa unica. Vorrei provare a condividere con voi le poche idee confuse che mi girano nella testa mettendole in fila una dopo l’altra.

L’università

Il primo elemento che ho notato è l’importanza delle dinamiche del mondo universitario. Randy Pausch ha vissuto di ricerca da studente prima e da ricercatore e professore poi. Il tipo di vita che si fa all’università permea tutto il suo racconto, è il modulo che Randy usa per misurare i suoi obiettivi e i suoi successi. Andare all’università è un’esperienza che, se capitate in buone mani, “stura il cervello” e lo fa funzionare ad un regime di giri superiore. Ascoltare Randy mi ha riportato ai miei anni migliori, alla facoltà di Fisica, e al ricordo di quante cose si possono imparare in tante situazioni diverse. L’interazione studente-professore, le ambizioni di Randy studente che formeranno le trovate didattiche (impensabili per il mondo accademico italiano) di Randy professore, con la divisione in gruppi, gli studenti che si valutano a vicenda. Un turbinare di idee fertili, di innovazione, di gioia di imparare e contemporaneamente realizzare prototipi.

La lezione

L’importanza e il valore di una lezione universitaria si imparano solo… andando a lezione. Non è la stessa cosa studiare a casa sugli appunti di un altro studente, non è la stessa cosa studiare sul libro o anche sulla trascrizione fedele di una lezione. La trasmissione del sapere che avviene durante una lezione non ha eguali (persino un video è solo un timido surrogato), anche se ti racconta cose che già sai.

E’ tipico dell’apprendimento universitario il sentirsi ripetere le stesse cose più volte e in ambiti diversi. Ti raccontano le leggi fondamentali della fisica raccontano a Fisica Generale I e Fisichetta I (OK, Esperimentazioni di Fisica I) poi te le riformulano (incomprensibilmente) in Meccanica Razionale. Nel frattempo hai sentito diversi seminari, esercitazioni, talk in cui vengono dette le stesse cose. Se non cedi alla tentazione di chiederti perché non studiare sul formulario, cominci a capire che stai sentendo punti di vista diversi che neanche credevi possibili su un argomento così assoluto come formule fisiche. Non solo: quand’anche stessi sentendo le medesime cose, scopri che il sapere ha bisogno di stratificarsi, come mani di vernice, finché nel tuo cervello non è tutto imbiancato a nuovo senza una sbavatura.

Il maestro di vita

Il valore della lezione universitaria non può essere trasmesso senza l’apporto di una figura speciale come quella di un bravo professore. Incontrare persone speciali tra gli insegnanti è forse più importante di scegliere la materia di cui occuparsi. Ricordo che nello scegliere la tesi mi venne detto “non importa cosa vai a fare, scegliti bene il tuo professore”. E a tutt’oggi non mi stupisco dell’utilità di insegnamenti ricevuti in analisi matematica o fisica teorica nella vita di tutti i giorni.

Randy Pausch incarna perfettamente questo tipo di figura: durante la sua lezione ci racconta che da piccolo voleva fare il progettista di parchi di divertimenti, che si è occupato di realtà virtuale, di come in dettaglio abbia applicato quest’ultima lavorando come Disney Imagineer alla progettazione dell’attrazione di Aladdin. Come può questo arricchirmi se nella vita faccio tutt’altro? Se faccio, che so, l’archeologo o il macchinista dei treni? La risposta viene data in parte da Randy stesso, con il concetto di head fake (tradotto come finta di gambe), insegnare una nozione perché si impari un concetto generale diverso.

Tuttavia se Randy non fosse la persona speciale che è stata, questo messaggio non sarebbe arrivato con tanta forza. Una persona tanto speciale da trasmetterti insegnamenti sulla vita è una merce molto rara di questi tempi, ancor di più se il messaggio arriva con la naturalezza e la schiettezza dell’eloquio di Randy.

La leggerezza

Un altro elemento che colpisce profondamente è la forma comunicativa di Randy Pausch: le sue frasi sono semplici, brevi e molto mirate. Sia che parli della sua salute condannata, con schiettezza brutale, sia che racconti di una sua ambizione Randy usa sempre un fraseggio asciutto, in cui si riflette la volontà di non sprecare nulla, né tempo né parole.

Ecco allora che escono i suoi momenti buffi, i momenti angosciosi (il parto rischioso di uno dei suoi figli, l’annuncio del peggioramento del suo cancro), le sue goffaggini sentimentali, i suoi sbagli clamorosi nei rapporti con il personale accademico. Gli insegnamenti puri e semplici. La dedica finale alla moglie, il testamento per i figli.

Siamo abituati a leggerci fra di noi blogger, a riconoscerci per le frasi, le spaziature, la lunghezza chilometrica dei post. Parimenti Randy emerge dal suo periodare schietto, magro come un chiodo, essenziale ma sempre simpatico. Il suo linguaggio è un affresco del suo carattere.

Il valore della vita

Questione di vita o di morte è un’altra frase standard da film d’azione. Trovarsi a fronteggiare veramente la morte è tutt’altra cosa e non è una cosa che capita spesso nè tantomeno che viene raccontata e condivisa. Come sa chi si è trovato in queste situazioni, si è obbligati a rivedere tutti i propri parametri, a scartare tutto quello che non è più importante e prendere delle decisioni su cosa è veramente importante.

Quando guardi la morte in faccia (tua o di un tuo caro), l’unica scelta che hai è rispondergli con la vita, anche quando è una battaglia persa. Il difficile è capire come rispondere con la vita: non è detto che debba essere la vita a tutti i costi che vorrebbe un’impostazione dogmatica, piuttosto la vita come principio primo, il fare qualcosa, raggiungere degli obiettivi, il capirci qualcosa e averlo trasmesso a chi ti è più caro. Sfidare a scacchi la Morte e provare a fregarla. Cadere in piedi e col sorriso sulle labbra.

Non siamo abituati a riflettere su queste cose; sono tempi oscuri in quanto a saldi riferimenti morali ed a linee guida. Nessuno ti insegna a vivere, ammesso che sia possibile, nessuno ti avverte che devi porti il problema di come vivere bene e appieno.

L’inestimabile valore degli insegnamenti di Randy risiede anche nel suo prenderci per mano e farci accostare a questi problemi con una leggerezza e una tranquillità impensabili. Randy ci ha regalato il racconto della sua vita perché era l’unica cosa che poteva fare con il tempo che aveva a disposizione, era l’unica cosa che doveva fare per i suoi figli e nel farla ha regalato un po’ del suo tesoro a tutti noi. Con il savoir faire di chi non mescola una verità personale trovata dentro di sé con una morale precostituita o una visione dogmatica. Randy ci ha regalato un consiglio laico. Non gli sarò mai abbastanza grato per questo.

Il ruolo di Internet

Un elemento fondamentale e imprescindibile alla base della forza della vicenda di Randy Pausch è il fatto che essa è nata e cresciuta in rete. A partire dalla Carnagie Mellon che usualmente mette su Youtube le lezioni più importanti su un proprio canale (ma anche su iTunes U), si è formato un “comune sentire”, una “esperienza collettiva” intorno alla lezione di Randy che è difficile descrivere a chi non è avvezzo a navigare in rete.

Cogliere il messaggio e gli insegnamenti di Randy “in diretta” e in parallelo alla sua vicenda è stata un’emozione grandissima. Veder crescere il contatore delle visite, dei commenti su youtube, le riflessioni di chi li rilanciava nei propri blog, il nascere spontaneo di traduzioni e doppiaggi (confesso che anch’io ci avevo pensato), traduzioni in cinese, pubblicazione delle su slide, gli aggiornamenti di Randy stesso nella sua home page, scritta in HTML a mano da vero geek (che teneva una todo list in emacs perché poteva fare il sort delle linee di testo più velocemente, in barba alle applicazioni dedicate), la lettera del presidente degli Stati Uniti.

Sono sicuro che dopo l’uscita del libro, che ben assolveva al suo ruolo di istant book completando l’esperienza crossmediale della lezione in video, uscirà la lezione in DVD, doppiata alla perfezione da speaker professionisti, con ogni materiale extra a disposizione.

Non sarà la stessa cosa dei video sgranati su youtube o google video, delle traduzioni artigianali dettate solo dalla voglia di ritrasmettere ad altri il regalo di Randy, del file PowerPoint della sua lezione, del vedere moltiplicarsi le versioni dei video mentre Randy era ancora vivo.

Mi fermo qui. Credo di aver battuto ogni record di lunghezza di post. Mi sono dilungato perché ci tenevo a lasciare un segno che andasse oltre il rimpianto, il semplice riconoscimento di valore, il “ci mancherà tanto”.

Mi piacerebbe che chi come me è stato toccato da questa vicenda provasse a dire la sua qui sotto nei commenti o nel proprio blog. Facciamolo per Jai, Dylan, Logan e Chloe Pausch.

Thank you, Randy.

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P.S.: sono aperte le donazioni al Carnegie Mellon’s Randy Pausch Memorial Fund che finanzierà il proseguimento del lavoro di Randy Pausch

Stonare è reato

Ma i cantanti “leggeri” italiani non sono stati sottoposti a nessun controllo di qualità e ci si trova spesso a dover ascoltare persone che stonano; è come dover giudicare il valore di uno scrittore leggendo un suo libro pieno di errori di grammatica. Voi ci riuscireste? Io no.

Elio in Il televoto non vale niente – Max

Cantare è una delle gioie della vita. Cantare bene è auspicabile. Essere intonati è un obbligo di legge.

Se vuoi canticchiare lo fai a casa tua, in bagno, in macchina, dove ti pare. Non ammorbare le orecchie altrui se vai mezzo tono sopra o sbagli gli acuti o credi che vengano prima il gorgheggio e la svisata soul del fare le note giuste.

Ho voluto molto bene ad amici e amiche poco intonate bisognose di evocare Guccini quando compariva una chitarra alle feste. Eravamo giovani, soprattutto eravamo amici.

Se non fai le note giuste non sperare in un vocal coach, prova con l’autocensura: non andare in TV, non aprirti un myspace.

No, neanche youtube. Quello proprio non vale.

P.S.: l’articolo di Elio è da leggere tutto.

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