Claz

Ciao Claz!.

Ciao Claz!

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Quando Aaron dall’America mi ha segnalato il ricordo di Settimio, non ci volevo credere, con gli occhi spalancati sul monitor, stentando a riconoscere la foto che io stesso gli avevo fatto.

Ho dovuto leggere il pezzo di Roberto per rendermene conto. Per dire addio a Claudio Zamagni.

E’ difficile spiegare quanto forte possa essere un’amicizia nata per via telematica quando ci si sta abituando a cliccare su “aggiungi un amico”.

Nel 1995 si era usi ascoltare il rumore del modem che oggi sopravvive in qualche fax, sopportarne la lentezza, le cadute di linea, per approdare alla magia di First Class e delle persone che animavano quelle BBS.

Alla base di quella magia le uniche feature erano la capacità di scrivere e la condivisione di una passione comune. Le persone facevano il resto, la loro simpatia, ironia, e quant’altro ci può essere di speciale dentro ognuno.

ClaZ con il suo occhio scintillante, il cacciavite pronto, la conoscenza di ogni circuito integrato e scheda madre di questa terra era una persona speciale. Molto speciale.

Te ne accorgevi dai primi messaggi, siano stati un consiglio su cartucce ZIP vs. EZ, su un overclock, sulla condivisione di dati shareware o sull’organizzare le prime pizzate di BBS a Torino.

E nel suo primo laboratorio casalingo ci incontrammo, io sperduto studente di dottorato in una città nuova, lui come se mi avesse sempre conosciuto a bullarsi dei processori Intel, che non si potevano overcloccare perché avevano l’acqua alla gola mentre i PowerPC se ne stavano bel belli in poltrona. E intanto con un “posso?” apriva il mio nuovissimo PowerBook 165c, regalo di laurea, beandosi di dettagli costruttivi dei tempi d’oro di Apple per me del tutto sconosciuti.

Con una scena simile, estraendo un Duo dalla sua Dock conquistò un altro Claudio portandolo via al mondo Windows. E l’episodio, più volte raccontato in BBS cementò l’amicizia di tutti e tre.

Alla stessa maniera si formavano legami con Bologna, Imola, Cagliari. Era un’epoca di ritrovi di BBS, non c’era skype, non c’era Internet nelle case, en passant. E Claudio si sparava tratte di autostrade per venirci a trovare, insieme alla moglie Maria che ha sempre amorevolmente sopportato noi mattacchioni. Ho cercato le foto della pizzata del 1996 ma non le ho trovate in tempo, aggiornerò il post appena possibile.

L’ultima volta che l’abbiamo incontrato, con Daria è stato a Bologna al bar degli elfi qualche anno fa. Una momento affettuoso come se gli anni non fossero mai passati.

Poi è arrivata Internet, le mailing-list, il POC, i vari MacDay, le battaglie ad Unreal di cui ho sempre sentito raccontare e ClaZ ha lasciato un segno nel cuore di tanti utenti Mac e non.

Avremmo voluto essere anche noi a salutare ClaZ, tra poche ore a Torino. Ad abbracciare Maria e Giovanna. Ma siamo qui, a raccontare quanto Claudio sia ancora qui e continuerà ad esserci.

Ciao, Claz!

Commentiamo insieme

Diceva sempre la mia prof. di prima liceo il cui metodo didattico si basava sul saldo pilastro di leggere un paragrafetto del libro di storia, dieci righe di importanza qualsiasi, e di chiedere alla classe di commentarlo. Risultato: qualche parola balbettata e un tragico vuoto di idee sulle idiosincrasie di Pericle.

La tag mainstream del mio Google Reader mi porta stamattina su un post di Michele Santoro sul blog di Annozero. L’argomento è estremamente limitato, una precisazione sulla puntata del 23 ottobre. Sotto il post ci sono attualmente 168 commenti. Pro, contro la trasmissione, pro, contro Marco Travaglio, sulla situazione rifiuti in Campania, su molte altre cose, pochi ne ho visti su quella precisazione. Tra tutti ho notato questo commento:

UN CONSIGLIO PER TUTTI VOI !!!
Cercate di scrivere commenti più brevi per cortesia.
Non siamo qua per dimostrare di saper scrivere o di sapere le cose.
Il blog è uno strumento per esprimere una opinione….non per esibire
il proprio sapere.
Se avete questa intenzione create un vostro blog così potrete istruirci e sfogarvi in ogni modo.
GRAZIE

Che dire, 1-1 per Fabio Metitieri, il commentatore è una vox clamans in mezzo a centinaia di altri animati da ansia da forum o agorafobia da blog: aprirsi un blog è tecnicamente facile ma è un atto di coraggio verso sé stessi e le proprie opinioni non proprio alla portata di tutti.

La differenza fra gregario e leader, fra chi dice la sua ma riesce a farlo solo nella massa di un luogo di ritrovo e chi sale sulla propria soapbox nel parco è tutta a favore dei primi. Non è solo un problema di digital divide, c’è una barriera di alfabetizzazione socio-informatica da superare prima di veder crescere il numero dei blog italiani di un ordine di grandezza.

Mi ritrovavo a spiegare le basi del meccanismo bidirezionale di lettura-scrittura, vero motore del blogging ad un mio caro amico che di recente si è messo a raccontare le sue vicende americane su un blog aperto per l’occasione. Il soggiorno in America è finito ma il blog è diventato un trampolino per le idee, qualsiasi esse siano.

Mentre parlavo con lui mi sono reso conto di quanto sia importante colmare il gap fra chi gode di un blog e di una rete sociale ben avviata e chi vede l’apertura di un blog come l’antitesi della partecipazione in rete: meglio commentare un blog famoso, più facile cliccare sul “scrivi sulla sua bacheca” dentro Facebook.

E intanto ti perdi la capacità di distinguere un’informazione satellite (un commento ad un post) e un nuovo nucleo di informazione, un seme che pianti nel tuo blog con la speranza che attecchisca e cresca nel tempo.

E intanto Annozero corre ai ripari.

Missing McCartney link

SAW_LondonUndersound.jpg

Il cugino blogger (primo inoculatore del virus beatlesiano) mi segnala via gtalk:

Tolgo il cellophane e metto il disco. È un disco di Nitin Sawhney, un artista angloindiano che ha fatto cose molto belle negli anni passati, mescolando elettronica, pop e suoni terzomondisti, con bellissime voci femminili. E sono curioso di capire quale apporto frettoloso abbia dato McCartney, per essere segnalato così discretamente: invece c’è una vera canzone “di Paul McCartney”. Si chiama “My soul”, i due l’hanno scritta assieme, ha tutta la formidabile sdolcinatezza di un pezzo di McCartney e una meravigliosa voce femminile indiana in sottofondo.

[via Maccartneysmo | Wittgenstein]

Immagino che Luca non volesse infrangere la licenza CC di Vanity Fair… 🙂

ergo provvedo io ad aggiungere un paio di colpi di Google per approdare al titolo dell’album London Undersound e alla pagina del sito ufficiale con l’anteprima ascoltabile in diretta.

Vogliamo esagerare? Ecco i link diretti per iTunes: London Undersound album e My Soul (il singolo di Paul).

Produzione standard mccartneyiana degli ultimi anni, concordo con Luca.

La gestione del segreto

Penso che sia bene tirare fuori i segreti.

Non parlo dei segreti collegati alla pudicizia: la malattia propria o dei propri cari, le funzioni corporali, una grossa figuraccia sul lavoro.

Parlo dei segreti seppelliti. Quelli che sono demoni che ci divorano. Che se anche affiora il pensiero, il nostro io si gira dall’altra parte. Quelli che non ci voglio neanche pensare ad affrontarli. Quelli che è meglio di no, ho detto no.

Ti illudi che tutto sommato, se ti ci metti proprio bene, riesci a nascondere il segreto. Lo metti sotto il tappeto. Sbagliato: hai visto troppe poche volte Tom e Jerry. La bozza si vede. Non c’è via di scampo. Anche se l’hai nascosto bene, anche se non ne parli mai. La sagoma è evidente, da tanti piccoli particolari. Come un’immagine eco. Meglio di un radar, peggio di una visione notturna. Ma si vede.

I segreti vanno fatti uscire senno’ crescono. Senno’ diventano demoni e i demoni non ti lasciano più. Quasi come i draghi. Quelli volano pure e hanno denti aguzzi. E ti trovano. Trovano il tuo stomaco e lo macinano.

Ma non è la paura del Drago che ti deve spingere a pisciare il calcolo. E’ la certezza di sconfiggerlo. E’ la ricompensa di essere una persona migliore.

Sconfiggi il Drago, butta fuori il segreto e non guarderai più gli occhi del drago. Guarderai gli occhi di tuo figlio. E capirai che ha capito.

E tutto andrà a posto.

Il mattino ha la privacy in bocca

Copertina del Manuale del Giovane Detective

Sono le 7:29 del mattino. Tra pochi minuti porterò fuori i bimbi (già svegli da un’ora): Ulisse al nido e Cesare alla fermata dello scuolabus.

In un paio di centinaia di metri succederanno, in ordine sparso le seguenti cose:

L’impiegato dai capelli scuri della banca sotto casa mi saluterà con un asciutto “buongiorno”, conquistato dopo un anno di incrocio di sguardi.

Incontrerò la sua collega dall’espressione triste, i lunghi capelli castani lisci, che ogni mattina esce dal giornalaio abbracciando il sole 24 ore, fumando la sua prima sigaretta ed evitando il mio sguardo. Ricorda paurosamente la ragazza depressa di What Women Want.

Occasionalmente la loro direttrice, una bella donna sui 50 anni, bionda, farà qualche convenevolo ai bimbi, ché lei ha la parlata facile. La piccola squadra aprirà quindi la filiale.

Vedrò il vicino di casa occhialuto dall’espressione depressa che sta dentro il giornalaio. Se ne andrà su una vecchia bici graziella.

Davanti al barbiere che deve ancora aprire c’è il signore elegante che esce tutti i giorni vestito di tutto punto in gessato scuro, camicia a righe, cravatta e fermacravatta, volto fresco di rasatura e lunga chioma da farsi sistemare. Ha sempre una borsa della spesa elegante, di un particolare negozio di abbigliamento, per portare due piccoli oggetti (occhiali forse?, si vedono appena dall’imboccatura).

A volte, prima del barbiere fa la fila alla posta, che si trova nello spiazzo della fermata, insieme alla piccola coda di abitudinari, già pronti con i bollettini in mano alle 8 meno 5. I vetri dell’ufficio postale ancora chiusi.

Vicino alla fermata c’è la banca nuova tutta vetri trasparenti, un acquario inaugurato da poco più di un anno, che ogni giorno viene aperto da una bellissima ragazza dal caschetto biondo tagliato al laser: fa colazione insieme ai suoi colleghi alla pasticceria di fronte, si rifornisce di sigarette al tabaccaio qui vicino e apre la filiale rigorosamente dopo averne fumata una. Potrei fare il grafico della frequenza di cambio d’abito e del Giorno del Parrucchiere tanto è ISO 9000 quella pettinatura. Per non parlare dell’utilitaria nel parcheggio condominiale, proveniente dal concessionario di Imola.

Stesso discorso, un po’ meno modaiolo per i suoi colleghi maschi. Abiti scuri elegantissimi, capigliature corte lucide di gel e scolpite con la mola a disco. Facce da primo mattino, li vedi attraverso i vetri sfogliare pigramente il sole 24 ore. E’ evidente che si spartiscono le mattine di apertura lungo la settimana.

Sui bar non diciamo niente: quelli sono luoghi di abitudinari, li frequenti e sai cosa succede senza che ciò debba stupire. Limitiamoci ad annotare le consegne che fanno le bariste, armate di vassoi e caffé al vetro ricoperti di fazzolettini di carta, negli uffici e negozi attigui.

Per non parlare di tutta la popolazione che vive alla fermata dello scuolabus: i “compagni di fermata” della materna e delle elementari sono praticamente degli amici ed è ovvio che conosca le loro abitudini mattutine.

Naturalmente vale il contrario: l’impiegato, la direttrice, il giornalaio, la biondina, il distinto signore si chiederanno chi è quel papà che tutte le mattine alterna facce sempre più stravolte e si aggira per la via con la tuta al posto dei vestiti, lottando contro due bimbi un tempo piangenti a sirena, ora litiganti per fare passeggino-pooling, spinto di corsa per prendere il bus al volo.

Tra le 7 e mezza e le 8 il quartiere si anima e tutti sembrano fare le stesse cose, sincronizzati come soldatini. Se ci vivi dentro non puoi fare a meno di (an)notarli. La gente non si nasconde, anzi: lascia tracce, mostra scritte e marchi. Non c’è niente di male a ricordarsene: nulla che da tredicenne non avessi letto ne Il Manuale del Giovane Detective.

Se fosse una canzone sarebbe una cover bolognese di Penny Lane.

Se il quartiere fosse FaceBook il Garante della Privacy chiederebbe a tutti di girare con occhiali, baffi e nasi finti.

Da qui a chiedere l’oscuramento di via Andrea Costa il passo sarebbe breve.

La sua chiamata è importante per noi

Chiamata ad Hera dopo 45 minuti di attesa

A Bologna il 4 ottobre si ferma tutto: è il santo patrono (San Petronio che coincide con San Francesco e noi in quanto Umbri tifiamo per entrambi). Sarà una coincidenza ma una mini riunione delle su’ donne porta Daria in libera uscita e mi lascia solo con i bimbi.

Nel contempo il programma della giornata prevede lo smaltimento di rifiuti casalinghi pesanti (vecchi aspirapolveri) nella stazione ecologica Hera che abita comodamente a poca distanza.

Dovendo incastrare l’operazione dopo il sonno dei piccoli e la visita dalla nonna cerco di informarmi per tempo. Obiettivo: capire se l’apertura 9-18 del sabato vale anche il giorno di San Petronio.

L’apposita pagina non dice nulla. Non c’è neanche un telefono a cui chiedere. Il numero verde Hera è chiuso a quest’ora. Google e Pagine Bianche non danno risposte utili.

Mi intestardisco a trovare un numero di telefono con un umano che mi chiarisca il dubbio: e se dovessi assolutamente smaltire dieci frigoriferi usati entro oggi? Un autoblindo? Un castello di poppa? Una betoniera? Meglio saperlo prima di muovere un trasporto speciale.

Decido di chiamare il numero della sede centrale di Hera. Lo faccio mentre preparo la pastasciutta ai piccoli, metto il dect in viva voce e aspetto.

Aspetto.

Aspetto.

Aspetto.

Aspetto e comincio a farne la cronaca.

Desisto verso i tre quarti d’ora, quando il sonno dei piccoletti comincia ad essere minacciato dalla musichetta di cortesia. Ma prima decido di documentarla.

Conclusione: mi sembra di aver capito che il 4 ottobre la sede centrale di Hera non risponda oppure che siano tutti impegnati in lunghissime conversazioni. Non saprò mai fino all’anno prossimo se lo stesso giorno chiude anche la stazione ecologica.

Però dopo 46 minuti e 08 secondi mi sono sentito molto ma molto importante per loro. 🙂

I Malavoglia e i Lupini

L’altra cosa notevole, culturalmente, è che su uno dei caposaldi tradizionali della nostra cultura scolastica e della nostra tradizione letteraria, tutti (compreso il corpo insegnante nella sua totalità, stando a una mia indagine sommaria) siamo sempre stati solidamente convinti di una cosa che invece è – come detto – quantomeno misteriosa e controversa, oppure non abbiamo mai capito di cosa si parlasse. Insegnanti avvisati, ma non so se con la Gelmini si facciano ancora i Malavoglia

Wittgenstein – I lupini che non colsi

Ricordo tutto il primo anno di liceo dedicato ai Malavoglia, sacrificando il mostro sacro dell’Eneide, così da avvantaggiarsi sul programma di quinta. Da mostro sacro ottenemmo un incubo sacro. Note, riassunti, schede dei personaggi di una realtà antica siciliana che per un quattordicenne del 1982 aveva meno interesse di un telefono in bachelite nera per un iPhone maniaco di oggi.

Edizione con copertina verde già introvabile allora, da studiarsi più sui due terzi della pagina dedicata alle fitte note di Pietro Nardi che al testo. Il Nostro si occupò anche di eliminare uno scandaloso paragrafo in cui veniva citato un episodio a base di un cesto di corna deposto ai piedi della porta di casa. Roba da turbare le nostre giovani menti che avrebbero dovuto avvalersi dell’edizione Oscar Mondadori diffusa come le patatine.

Neanche a dirlo, a nessuno di noi venne mai in mente di chiedere dei lupini.

Blogfest o quasi

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Ci siamo, o quasi: la BlogFest per noi coincide con il weekend dai nonni a Brentonico dove i bolsi al completo sono arrivati ieri sera vincendo il sonno in autostrada.

Indietro con i post, con i feed, con i tumblr, con friendfeed, con l’igiene orale e il taglio delle unghie non abbiamo neanche consultato il programma e adotteremo il taglio più social possibile.

Insomma, bimbi e nonni permettendo, faremo più volte i 20 minuti di macchina che ci separano da Riva del Garda e ci si vede là.

Teneteci un badge, mi raccomando!

Buchi neri

Fare il fisico è stata una bella esperienza, come quelle gite scolastiche con tanto di luna piena, falo’ e qualche speranza che la più bella della classe ti degni di uno sguardo.

Poi però il pullman ti porta a casa e nei sedili in fondo se la spupazza qualcun altro.

I buchi neri, dicevamo, roba che quando non eravate neanche nati, sul finire degli anni ’70 riempiva i paginoni della sezione scienza di Panorama, con tanto di figura del malcapitato attraversatore del Buco che finiva stiracchiato in chissà quale parte dell’Universo.

E così ti frullano in testa degli strani mischioni tra frasi fatte giornalistiche, ingredienti di fantascienza, due cucchiai di immaginazione e la frittata è fatta. Non ti ferma neanche Piero Angela che all’epoca, nella trasmissione Quark senza il Super davanti, si fermava pazientemente a spiegarti cosa erano ‘sti benedetti Quark (scoperti e ipotizzati relativamente da pochi anni), i loro amici Buchi Neri precisando che tutto quello che si sapeva di questi strani soggetti era una manciata di numeri e formule. Nessuno li aveva mai visti né si poteva sognare di vederli, nell’accezione comune del termine.

Com’è, come non è, a 19 anni finisci per iscriverti a fisica, ti fai un discreto mazzo tra esami di matematica, forma mentis tutta da forgiare e residui pensieri fantascientifici da purgare finché al terzo anno ti imbatti nell’Unico Complementare Teorico che puoi scegliere (nel 1990 funzionava ancora così). Relatività, mi pare ovvio (il genio di Einstein, lo spazio, la gravità, se eri femmina un prof. giovane dagli occhioni blu). Vuoi che un fisico non sappia nulla dello spazio tempo e dei buchi neri?

Superi pagine e pagine di formule sul quadernone, digerisci la notazione quadridimensionale con somma implicita sugli indici (sono ancora indeciso se pronunciarli mi e ni oppure mu e nu), fai fare alla tua immaginazione sforzi ben più contorti di quelli delle pagine divulgative dei giornali e approdi, dopo tre cambi di variabile in coordinate polari al tuo primo buco nero, una pagina e mezzo di quadernone dedicata alla Metrica di Kerr.

Da una serie di considerazioni che devi cercare di riportare su una sola dimensione spaziale e una temporale (dimenticando gli angoli che sarebbe troppo complicato capire), intuisci che la X e la T si invertono di ruolo oltre l’orizzonte degli eventi, oltrepassato il quale la X va solo avanti, ovvero gli oggetti cadono irreversibilmente nel buco nero e non tornano indietro. Alcune clausole che, se fossero un EULA di oggi, sarebbero scritte in piccolo in fondo alla schermata, dicono pero’ che ci vuole tempo infinito a raggiungere l’orizzonte degli eventi, che il modello vale per un buco nero sferico o puntiforme e che dall’altra parte forse c’è un buco bianco ma che tutti i punti della superficie che congiunge i due buchi (un wormhole) è di tipo space-like, ovvero: impossibile da raggiungere, sarebbe come andare indietro nel tempo. Non si attraversano i buchi neri, niente da fare, no viaggi intergalattici, niente stiracchiamenti, nada.

In altre parole: la realtà è molto più complicata, la metrica di un caso realistico la sanno solo i miei colleghi che ci si sono laureati e specializzati, chi ha tentato di metterci anche la meccanica quantistica non c’è ancora riuscito e chi ci ha provato mi ha mostrato formule ben più lunghe della mia: l’ultima che ricordo in teoria delle stringhe era lunga vari fogli A4 uniti con lo scotch. Solo la formula, mica la soluzione, eh?

Dietro la fisica teorica, come dietro quella sperimentale c’è un’estrema specializzazione, pagine e pagine di articoli, ore e ore (settimane e settimane) di tempo di calcolo su computer a molti processori, passione, sudore, colpi di culo e quant’altro possiate immaginare di più lontano dai titoli semplificatori dei giornali di oggi.

Dieci alla meno diciannove? Avete idea di che numero sia? Se fosse di una qualche importanza mi fionderei in tabaccheria a sparare 6 numeri a caso e diventare miliardario in tre tentativi.

Non faccio più il fisico da anni, al CERN ci sono andato in gita in pullman, il secondo anno, so un cazzo di cosa fanno in Svizzera, ma mi fido di loro. E’ come se, per oscure ragioni diventata mainstream, Internet fosse vista come una minaccia stile Matrix, foriera della fine del mondo, come se Novella duemila facesse i titoli sui pericoli dei pacchetti TCP/IP. Anche il meno tecnico di noi blogger starebbe ridendo ininterrottamente da settimane.

Forse è stato tutto veramente una gita scolastica.

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