Facebook si pappa FriendFeed – considerazioni a caldo di agosto

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(via FriendFeed accepts Facebook friend request)

Se fosse avvenuto in Italia sarebbe stato un colpo di mano agostano, invece è stato un grande rutto digestivo della new economy 2.0 (Clarence vs. Lycos cit.).

E’ veramente triste apprendere in diretta dal tuo social network preferito la sua cessione al gigante che ritieni essere IL MALE in persona.

FriendFeed ha visto proprio l’estate scorsa di questi tempi un’esplosione di socialità della blogosfera italiana che, satura dell’esperienza twitteriana come metodo di conversazione e commento, ha trovato nei commenti in diretta e nel sistema di prioritizzazione dei thread di Friendfeed il suo alveo naturale. Twitter e Facebook erano diventate solo casse di risonanza degli echi nati dai post originari su FriendFeed. Se dovevi segnalare qualcosa di interessante lo facevi lì, se dovevi scatenare una sequenza di battute, condividere un momento importante lo facevi su FriendFeed.

Ed ora?

FriendFeed.com will continue to operate normally for the time being. We’re still figuring out our longer-term plans for the product with the Facebook team. As usual, we will communicate openly about our plans as they develop — keep an eye on the FriendFeed News group for updates.

(sempre via FriendFeed Blog)

Quel for the time being racchiude tutte le incertezze possibili: che fine faranno i termini di servizio di FriendFeed? Che ne sarà dei nostri dati? Verrano usati per le profilazioni di FaceBook? Con quale autorizzazione? E soprattutto: ora dove andremo se la nuova casa ristrutturata non ci piacerà?

Da stasera vedo le recenti funzionalità social di Google Reader in una luce diversa (e tornerò a coccolare Twitter).

Incollo qui sotto la rassegna live dei post sull’argomento, non prima di aver incollato il post preferito di stasera:

On friendfeed everyone is talking about the Facebook acquisition. On Facebook, people just continue taking stupid quizzes.

P.S.: nessuno mi tocchi tumblr, almeno.

P.P.S: i veri geek sono già tutti su posterous. Bandierina piantata da un anno ma mai usato. Si accettano suggerimenti prima di migrare in massa.

La camminata silenziosa per Francesco

La camminata silenziosa

Quest’anno non ho partecipato alla silenziosa marcia dal centro di Bologna alla Stazione. Non volevo mancare ad un’altra camminata per salutare il piccolo Francesco Schelfi.

Ho conosciuto la malga e i formaggi di suo padre Angelo e suo zio Orazio ben prima di diventare trentino adottivo e di mettere su famiglia legandomi a Brentonico. Una fattoria dove, prima di silenzio, altitudine, bontà del cibo, ti colpisce la pasta di cui è fatta la gente. L’intesa e il calore di uno sguardo che proviene da un volto rubicondo e da un corpo di roccia. Una forza accogliente, risate, saluti. Pochissime parole, molta intesa. Aiutame con quei formai, io provo a sollevare una forma da 10 chili ma Orazio la prende con una mano come fosse gommapiuma e la ripone su uno scaffale.

Chi è nato e vive in città probabilmente ha perso di vista la coesione e la forza del tessuto sociale di un piccolo paese. Qui è una rete sociale da sempre, altro che facebook. Un messaggio viaggia ad una velocità impressionante, sia che sia un fatto, un pettegolezzo, una presa in giro, un cambiamento in paese. Se hai bisogno di qualcosa trovi l’idraulico, il muratore ma anche il medico, il rianimatore, il vigile del fuoco, il pronto soccorso. Tutti a uno, massimo due gradi di separazione, più spesso a zero gradi di separazione. Non solo il fare è a pochi gradi di separazione, il sentire è a pochi gradi di separazione. Qui in Trentino la coesione è tutto.

E la rete sociale porta la notizia a casa nostra, a Bologna, per telefono, dopo aver sentito passare l’elicottero dei soccorsi, una voce tremante che rende tremanti le nostre voci. Angelo mi aveva offerto un bicchiere di vino al suo chiosco di formaggi, l’immagine stampata nella testa torna a galla immediatamente. Ed eccomi nella rete, il messaggio passa e devasta, i fatti escono dalla pagina dei giornali e diventano tridimensionali e partecipati.

BRENTONICO. «L’ho ucciso, l’ho ucciso». Angelo Schelfi gridava disperato, scendendo a piedi la pista Canalone con in braccio il corpicino del figlio Francesco. Un disgraziato incidente con il trattore, il mezzo si rovescia, il rimorchio si stacca, spaccando di netto il gancio d’acciaio e travolgendo il bambino di soli due anni e mezzo, sbalzato sul prato dalla cabina.

Ucciso dal trattore a due anni – Local | L’espresso

“L’ho copà! L’ho copàaaa!”, hanno scritto “L’ho ucciso” ma io me lo immagino che avrà urlato “l’ho copà!”, dice Daria leggendo la cronaca locale arrivati in paese. I suoi genitori hanno tenuto i giornali per noi. In copertina sul Trentino una delle foto più toccanti che io abbia mai visto, in cui mamma Daniela porta in braccio un fagotto da cui spuntano capelli biondi.

Siamo in paese, mancano due ore al funerale e la rete sociale pulsa di riverberi e di ricordi. In quel dialetto che è il vero collante sociale, che quando giunge alle masse in TV diventa macchietta ma che qui è l’amalgama fondamentale, per le chiacchiere e gli atti ufficiali, per le cose belle e per le tragedie. In quel dialetto sento pezzi di racconti su una famiglia e un bambino pieno di vita, talmente vivace da essere incontenibile con tutti tranne che con il padre con cui diventava docilissimo. Che dormiva chiuso a chiave perché era capace di uscire e andarsene chissà dove per i monti. Che quella mattina l’erba era ancora bagnata sul canalone, gh’era il sol ma l’era le dese, e l’erba l’era ancora mola da la not. Che qui i puteloti, i bambini, hanno un ruolo speciale mentre noi in città ci facciamo le seghe sulla città a misura di bambino.

Il funerale del piccolo Francesco comincia alle 15 ma la chiesa è già piena quando mancano 10 minuti. In paese un silenzio irreale, riempito dal suono delle campane. Daria chiede se dobbiamo portare la busta o se c’è da firmare. All’ingresso della chiesa troviamo il quaderno per le firme e lasciamo un abbraccio anche da parte dei nostri puteloti. Accanto ci sono due ceste piene di buste. Cosa sono, offerte? No, qui l’usanza è di lasciare le condoglianze in forma privata, ognuno in una busta. Il registro delle firme è l’eccezione.

Il prete va avanti con la messa che seguiamo distrattamente da fuori. Guardo le facce della gente, loro guardano me. E’ come se sapessimo tutti cosa fare e perché stiamo lì, anche se non conosco quasi nessuno di quelli che mi circondano. Azzardo qualche foto, poi metto via la reflex che mi fa sentire un avvoltoio. Non riuscirò mai a cogliere quell’atmosfera fatta di silenzi e di consapevolezza dolorosa. Opto per l’iphone, più discreto e sufficiente a cogliere alcuni dettagli d’insieme.

Ci scambiamo un segno di pace, forse l’unico momento sensato del rito religioso che volge al termine. Come ricevendo un ordine implicito ci spostiamo, disponendoci ai lati dell’entrata con composta efficienza, come una coreografia già provata. Dall’interno qualcuno applaude. Poi esce il proiettile.

Percorrendo velocemente tutta la navata poi attraversando il portone ci passa davanti. Bianca, bianchissima. Portata a mano. Braccia grosse come tronchi portano una bara troppo corta per essere tenuta da tante mani. Qualcosa esplode dentro ognuno di noi. Il portellone del carro funebre si chiude e tutti si mettono in moto.

Ci stiamo per accodare ma rimango attonito. Non riesco a smettere di guardare la cassetta delle condoglianze. C’è arrivato anche un cagnolino di peluche.

Il rito silenzioso da immobile si mette in movimento. La coreografia spontanea diventa una lunga camminata lungo la strada che costeggia la chiesa diretta al cimitero. Nessuno parla, è un caldo giorno d’estate, c’è un po’ di vento che scuote gli alberi, un silenzio affettuoso e rispettoso.

Il cordone giunge al cimitero, il piccolo cimitero ordinato e raccolto di un paese come questo, che attraverso le sue diverse entrate vede dividersi il cordone di gente e ognuno trovare posto dove può, dove vuole. Il cimitero è quadrato ma l’impressione è di trovarsi in un arena, con gli sguardi diretti verso il centro, il sole, il vento, gli alberi, le facce che dicono molto anche senza parlare.

Un singhiozzo profondo squarcia il silenzio, poi un altro e un altro. La bara scende, Angelo e Daniela vanno via. Orazio riceve gli abbracci di tutto il paese e anche i nostri. Piano piano, senza clamori, senza frasi fatte, senza piagnistei, la rete sociale risponde e restituisce affetto.

Ci incontriamo con Beppe, il fratello di Daria. Beppe ha tre figli, i cuginetti di Cesare e Ulisse. Ci guardiamo e piangiamo. A più riprese. Era un po’ che cercavo di mettere insieme le idee per raccontare cosa voleva dire essere genitori, sul perché prima di esserlo i bambini ti sembrano cuccioli di uomo che fanno tenerezza o poco più e dopo diventano parte di te come se il fegato e il cuore mettessero le zampette e se ne andassero in giro ridendo.

I bambini sono vita che ride e che va in giro. Avere dei bambini ti rende speciale e ti fa vivere meglio. Avere dei bambini ti mette in comunicazione con tutti i bambini del mondo. E quei ciuffi biondi è come se li conoscessi anche tu e volessi riportare indietro la macchina del tempo a tutti i costi.

Bologna, 2 agosto. In soccorso della memoria

Il Trentasette

I soccorsi vennero organizzati immediatamente: ‘La prima ambulanza è piombata sul piazzale della stazione neppure due minuti dopo’. Così il Resto del Carlino, giornale cittadino, raccontava la reazione allo scoppio della bomba in stazione.

Ancora prima dell’arrivo di ambulanze e di vigili del fuoco i sopravvissuti vennero aiutati da passanti, ferrovieri e tassisti.
Anche le automobili private furono utilizzate per il trasporto dei feriti e fecero la spola fra stazione e ospedali.

Le lunghe catene umane in cui venivano passati i calcinacci, i mattoni che si spostavano tentando di liberare la zona dell’esplosione, sperando di trovare persone vive, seppur ferite, sotto le macerie erano formate da volontari, vigili del fuoco, soldati di leva; spesso si trovarono a lavorare fianco a fianco persone diverse, persone che, a Bologna, si erano trovate a fronteggiarsi anche aspramente sul piano politico.

Soccorsi bus 37
Soccorsi bus 37

Via Bologna – 2 Agosto 1980 – Associazioni Familiari vittime della strage alla stazione – I soccorsi

Con l’Apollo 11 negli occhi

Con l'Apollo 11 negli occhi

Credo sia la prima volta che mi trovo ad aggiornare un post di 6 anni fa, del luglio 2003.

Ho deciso infatti di pubblicare la foto che ritrae il sottoscritto mentre l’Apollo 11 lasciava il suo imprinting nella mia memoria di bambino.

Se i forse dettagli di quelle immagini non possono materialmente essere trattenuti dalla mente di un bambino di 10 mesi, la sensazione di avventura, di balzo in avanti, l’idea dell’ultima grande esplorazione umana hanno permeato l’esistenza di chi è cresciuto in quegli anni.

Le tute bianche coi tubi, i grossi caschi sferici a specchio, gli zaini bianchi, i balzi sulla luna, il metallo delle strutture, i piccoli razzi direzionali, quella specie di carta stagnola a protezione delle radiazioni, il razzo bianco e nero. Sono elementi che hanno definito la tecnologia e l’immaginario fantascientifico di quegli anni. Si era diffusa l’idea che ci sarebbe stata un’evoluzione rapida e la luna sarebbe stata una meta facile ma non fu così.

La tecnologia era troppo costosa e pericolosa per poter continuare, come ha raccontato Umberto Guidoni nella bellissima trasmissione Dalla Terra alla Luna e nel dibattito che c’è stato a Radioincontri.

E’ stata veramente una grande avventura, difficile ad immaginarsi oggi, quando i collegamenti via satellite sono la normalità e una diretta televisiva strappa qualche sbadiglio. Non si conoscevano i colori della luna, non si era mai vista la terra da un veicolo in orbita. Le astronavi stavano su con lo sputo e i motori si facevano ripartire piantando una penna nel buco dell’interruttore rotto (penna che Buzz Aldrin conserva ancora). Provate a farlo con l’iPhone.

E’ stato un viaggio fatto in nome di tutta l’umanità, almeno a parole ma anche quelle contano in certe occasioni.

Guardatevi le immagini di The Big Picture (le lacrime negli occhi di Armstrong dopo la passeggiata lunare da sole dicono tutto) leggetevi tutto il post gigante sull’Apollo 11 di Kottke per avere ogni informazione possibile in forma enciclopedica e non dimenticate le pagine NASA del quarantennale dell’Apollo.

Grazie, Apollo.

(e grazie a chi mi ha tenuto sveglio. 🙂 )

The Anatomy Of The Twitter Attack – il fattore umano è il tallone d’Achille

What’s the takeaway from all this? Cloud services are convenient and cheap, and can help a company grow more quickly. But security infrastructure is still nascent. And while any single service can be fairly secure, the important thing is that the ecosystem most certainly is not. Combine the fact that so much personal information about individuals is so easily findable on the web with the reality that most people have merged their work and personal identities and you’ve got the seed of a problem.

(via The Anatomy Of The Twitter Attack)

Il lungo resoconto dell’attacco agli account dei dipendenti di Twitter ha molto da insegnare sul cloud computing e la sicurezza diluita che ne consegue.

Il cloud computing si basa sulle applicazioni web e queste si basano sull’uso degli indirizzi email come forma di autenticazione. Uniamo questo fatto alla pigrizia di generare password complesse, all’uso di parole comuni nelle domande di recupero password e, per effetto domino, arriviamo all’infiltrarci in un’intera infrastruttura.

Nella rete gli umani sono nodi al pari dei computer e le loro abitudini possono costituire un pericolo quando possono essere statisticamente individuate da google e da qualche educated guess (tirare ad indovinare). L’insieme eterogeneo delle web apps non ha ancora un corrispondente insieme omogeneo di policy di sicurezza, questo è il dato più importante.

Non mi lamenterò più dell’obbligo di cambiare le password una volta al mese imposto dalle nostre normative ISO!

Mario Calabresi e l’innovazione agile

(via friendfeed)

Segnalo questo intervento in cui in soli 10 minuti Mario Calabresi racconta come abbattere i muri di cartapesta che ostacolano piccole e grandi innovazioni.

La leggerezza, citata da Lezioni Americane, mi ha ricordato i presupposti della Metodologia Agile.

L’apertura di dibattito su ogni dettaglio, la necessità di indire riunioni e istituire commissioni di verifica mi hanno paurosamente ricordato il lavoro quotidiano, invece.

Il post sui barcamp che avrei voluto scrivere

L’ha scritto Claudia/Simple, dopo il bateocamp:

Mi sono trovata in mezzo ad un’attività del tutto simile a quella cellulare o molecolare dove esiste una volontà organica nella quale si viene coinvolti sia che si tenti di controllare la situazione, sia che ci si consegni all’implacabile fluidità biotica dell’ambiente.

come per la cellula « simplemente

La metafora biochimica ben si adatta a dinamiche sociali tipiche di tutti i barcamp, ci abbiamo persino giocato su facendo anche un esperimento sociologico mai raccontato in quel di Urbino. 🙂

I barcamp sono una implementazione fra nodi in carne ed ossa di dinamiche di rete ben determinate, condite con un po’ di protagonismo locale ampiamente superabile da un po’ di conversazione. Ridurre il tutto a “raduno di blogger” significa tralasciare questi effetti.

Benvenuta, piccola microblogger!

Un’altra bimba della rete è appena nata in diretta Twitter e FriendFeed.

Se due anni fa si poteva avere qualche dubbio sull’uso del microblogging in queste liete ma concitate occasioni, oggi le cose sono diverse. Twitter, per occasioni assai meno liete, è diventato mainstream, uno strumento di cronaca da saper usare.

Un abbraccione a Domitilla e socio che abbiamo seguito fin qua. Ora le toccherà cambiare il nome in codice.

Update: eccola 45 ore dopo.

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