Fotografare con le pinne

[…] l’unica cosa che davvero mi infastidisce della facilità con cui da un tot di anni a questa parte si possono scattare belle fotografie. Ovvero la perdita di contatto con cosa significhi davvero essere un fotografo, l’incapacità di distinguere un bello scatto da una — mi si scusi il termine — poetica che abbia un valore, il dilagare di riviste, siti e blog che pubblicano fotografi che sanno semplicemente scegliere una buona angolazione ed editare un jpg. Sono convinto che una foto non significhi nulla perché chiunque può fare belle foto — anche un piccione, per dire. Essere un fotografo significa invece essere in grado di raccontare o dire qualcosa, qualsiasi cosa. E quello sì, non sono in tanti a saperlo fare.

(Via Hipstamatic e un pensiero sul futuro della fotografia | Personal Report.)

Pier Mauro Tamburini mette il dito nella piaga del cambiamento socio-tecnologico portato dalla fotografia digitale e dai suoi automatismi correttivi sull’immagine.

La scuola di guerra dell’orizzonte storto sulle diapositive, del ritratto scuro controluce, della bruciatura solare lasciavano nei cassetti migliaia di immagini che ora trovano un loro perché espositivo.

Sono però convinto che come l’occhio prima si meraviglia poi si abitua alla nuova grafica di un videogioco, da qui a pochi anni faremo l’abitudine cerebrale ad una certa “poetica digitale” e distingueremo facilmente il colpo di fortuna assistito dall’occhio allenato del fotografo che fa tesoro dell’esperienza scremando scatti su scatti invece di puntare sulla fluttuazione statistica.

Si impara a nuotare senza pinne; se hai imparato con le pinne si vede, anche se vai più veloce.

Per il tuo business

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Non so se è l’Afghanistan ad incentivare il cattivo gusto delle pubblicità dei quotidiani online ma anche oggi la storia delle home page sfortunate si ripete.

Non so se sono peggio i 500 minuti in più per il tuo business o il discreto orecchino a forma di Tour Eiffel. In ogni caso anche stavolta i due maggiori quotidiani italiani mi hanno fatto un brutto effetto, contornando una notizia tragica con pubblicità troppo colorate.

Credo che sul concetto di home page, splash page, shutter e altre amenità bisognerà ancora lavorarci a lungo.

Linko a futura memoria le pagine interne di repubblica e corriere relative alle salme degli alpini.

Update: segnalazione analoga di Pazzo per Repubblica per le home page di venerdi 8 ottobre.

I have another clue for you all

Buon compleanno, John e buon concerto domani con un po’ di amici.

Anche Google se ne è ricordato con un loghettino

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e un doodle video:

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E non escluderei che domani Apple faccia lo stesso come quando dedicò la home a George, comparso nel dicembre 2001.

Ci si sente sempre un po’ cretini e un po’ malati cronici, a ricordarsi del tuo compleanno come i fan della prima ora. Per fortuna ci si consola con un but I’m not the only one. Se lo fa Google, lo fa il mondo intero.

Del resto c’è chi festeggia il compleanno di Beethoven, e noi siamo fra questi. Alla faccia di chi non ci capisce.

Stammi bene, John e, per favore, rimani per sempre il ragazzaccio che tutti ricordiamo.

Il mio cuore vola alto come un falco

– Spiegami perché vuoi morire, nonno.

– Perché è l’unica cosa che si può fare con l’uomo bianco, figlio mio. SI può disprezzarlo come una creatura inferiore ma bisogna ammettere che non puoi liberarti di lui.

– no, temo che non sia possibile, nonno.

– il numero dei bianchi cresce sempre senza fine; il popolo degli uomini invece è stato sempre piccolo e scarso. Oggi abbiamo vinto. Ma non vinceremo domani.

Oggi si è spento Arthur Penn, regista di Piccolo Grande Uomo, uno di quei film del cuore che visti da bambino ti segnano per sempre.

Una cinematografia dolce e ruvida al tempo stesso, il ritmo e le le inquadrature dei primi anni ’70, due ore e venti di racconto di un Dustin Hoffman ultracentenario con l’inconfondibile voce di Ferruccio Amendola (che dovette superare un provino in incognito per doppiare la parte di Hoffman vecchio), i silenzi, la commedia, le battaglie, il capo indiano Cotenna di Bisonte che aspetta “un buon giorno per morire”, un film che ti entra nel cuore e lo fa volare alto come un falco.

Qui al Post pensiamo che Arthur Penn sia stato soprattutto il regista di uno dei più grandi film sulla storia degli indiani di tutti i tempi, forse il più grande.

(via il Post)

Anche qui lo pensiamo, ragazzi. Addio, Arthur Penn.

Il caffè corretto

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Da che se ne ha memoria l’hub delle chiacchiere al lavoro sono le macchinette del caffé (e affini riuniti oggi sotto il cartello blu area break). Le idee mulinano, i progetti ai avviano, gli imprevisti fioccano, le prese per i fondelli abbondano.

E, come in tanti altri posti, ci si lamenta. Del traffico, della vita, di qualsiasi cosa e di quanto è cattivo il caffé. Quel caffé.

Sono dieci anni (abbondanti) che frequentiamo quelle macchinette e ci spericoliamo in improbabili distinzioni fra il caffè di quella nuova col display blu e l’orzo macchiato amaro di quella vecchia col display giallo. Inutili code si formano dinnanzi a quella che in quel momento ha la reputescion migliore, osservati mestamente dall’altra macchinetta con molti meno followers.

Fidandomi della mie infallibili papille gustative millantavo differenze fra le nostre macchinette e quelle degli Ospedali di Bologna gestiti dallo stesso vendor. Qualche centesimo di più permetteva evidentemente l’acquisto di una miscela migliore. Il caffé era il sospettato numero uno del cattivo sapore. Nonché l’unico.

L’omarino delle macchinette aveva un bel dire che c’è la stessa miscela da noi e all’Ospedale, molte facce schifate di prima mattina testimoniavano il contrario corroborando la mia teoria del complotto della miscela cattiva.

Poi, in un tiepido autunno 2010, si diffonde inarrestabile la pratica di sostituire il bicchiere di plastica della macchinetta con una tazzina da caffé portata da casa. Alcuni pionieri hanno iniziato pigiando il bottone – BEEP – sfilando lesti il bicchiere ancora lindo e infilando la tazzina al suo posto per poi devolvere il bicchiere alla comunità nel dispenser del watercooler.

Strani sorrisi soddisfatti minavano le mie certezze. E’ molto meglio con la tazzina: il caffè è buono. Seee.

Per ogni teoria esiste un momento in cui il paradigma viene messo in crisi. Stamattina mi sono fatto contagiare dal word of mouth e ho furtivamente sottratto dalla credenza di casa una vecchia tazzina in disuso. A metà mattina ho ripetuto la procedura carbonara. Primo tentativo: tazzina vuota con solo zucchero su fondo, ho scoperto che il caffè viene erogato in un punto periferico della bocchetta. Secondo tentativo andato a segno: il caffè è buonissimo.

Mentre mi riprendevo dallo stupore e dalle risate degli astanti ho realizzato che per dieci anni abbiamo bevuto una bevanda bollente aromatizzata alla plastica riscaldata. La miscela non c’entra. Il caffè è buono, diciamo decente, buonissimo lo è solo per la fascia di mercato dei caffè da macchinette.

Alla faccia del viral marketing, consideratevi contagiati. Ci incontreremo a sciacquare tazzine di varie forme e colori nei lavandini degli uffici.

(nella foto: un recipiente del giurassico accanto al sostituto del futuro)

La 42esima estate ai tempi di facebook

Confesso che ultimamente ho cliccato con poco entusiasmo sui compleanni che Facebook roboticamente mi segnala. Non tanto perché mi importasse poco della persona cui avrei fatto gli auguri ma perché mi immedesimavo in lei immaginandomi di non gradire auguri sollecitati da un reminder su un social network.

Consideravo come parte del messaggio di auguri la fatica di ricordarsi della giornata e di ritagliare un pensiero speciale per il festeggiato.

Se l’augurio è semiautomatico deve avere lo stesso valore di una newsletter (che peraltro da Vodafone mi è arrivata).

Avevo sottovalutato i 500 milioni di utenti che abitano Facebook o meglio, avevo sottovalutato il radicamento nelle possibili forme comunicative di questo social network anche da parte di chi non è così addentro la rete e la tecnologia come noi friendfeed-maniaci.

Se è vero che quel clic è facile da fare, ci sono stati 42 e più amici che si sono sbattuti per farlo e aggiungere un messaggio, lungo o corto. Sia su FriendFeed che su Facebook che su Twitter.

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Sapete una cosa? Non siete stati affatto robotici e mi avete fatto un gran piacere. Così come mi hanno fatto piacere sms e telefonate che hanno completato la multicanalità del complebolso di ieri.

Mi si è confermata la rete come luogo concreto e vitale di risonanza di rapporti e legami e come rete delle possibilità sempre aperte.

Roba che se non stai attento ti arrestano l’Ego per ubriachezza molesta.

Credo che non avrò più dubbi nel cliccare sui compleanni futuri e imminenti.

Grazie a tutti. Grazie, rete.

P.S.: la giornata nel mondo reale si è conclusa con un’altra sorpresa: una bolso-sopportante che mi fa trovare 42 candeline profumate e due aiutanti per spegnerle. Grazie a voi tre. Vi amo.

Due aiutanti per 42 candeline

Il primo e l’ultimo giorno di scuola

Oggi è stato il primo giorno di scuola elementare di Cesare.

In una classe affollata di bambini e genitori emozionati, dentro una nota e apprezzata scuola nel bosco i primi argomenti affrontati sono i tagli derivanti dalla riforma Gelmini e la cronica mancanza di materiale della classe. Gli stessi argomenti hanno animato la riunione preliminare la settimana scorsa.

Di colpo ti senti proiettato nella cronaca, negli speciali radiotelevisivi di ieri mattina, sulle “scuole al via ma mancano i fondi”, sui titoli urlati, i dibattiti infiniti, le cure sintomatiche e non strutturali.

Parte oggi (a Bologna ché gli speciali e le notizie per il resto d’Italia sono partiti ieri) un lungo tunnel che finirà, se tutto va bene, tra 13 anni.

Tredici anni in cui Cesare, insieme ai suoi compagni di avventura, dovrà imparare le cose della vita nonostante la scuola, i programmi, le decisioni ministeriali e grazie agli sforzi dei singoli insegnanti e dei genitori.

L’istituzione-scuola è una barca di legno vecchio, piena di crepe e coperta di toppe, il cui stato di malato cronico viene accettato con un’alzata di spalle all’italiana. Le cose stanno così, cosa vuoi farci. Chi prova a toccarle fa più male che bene.

In fondo al tunnel, l’ultimo giorno di quei tredici anni previsti i giornali e le televisioni tornano a parlare della scuola per gli esami di maturità. Traguardo con bandiera a scacchi per la corsa dell’armata Brancaleone, parvenza di ufficialità di un edificio pericolante, argomento che fa notizia non si sa bene perché.

Quando nel lontano 1987 ci sono passato mi sentivo sotto l’occhio del microscopio. “Mi raccomando l’Esame!”. Ti raccomandi cosa? Non dovresti essere tu a prepararmi? Mi lasci da solo? Ma cosa vi aspettavate da noi? A cosa dobbiamo stare attenti? Dopo anni e anni di fogli protocollo, di compiti, di routine di sopravvivenza, di passione occasionale per cui ringraziare un prof. volenteroso e mai l’istituzione in sé? Cosa me ne importa dei consigli sulla dieta giusta per l’esame quando non so affrontare un esame perché nessuno me l’ha insegnato?

Alfa e omega.

Prima elementare e quinta superiore. Il massimo dell’attenzione mediatica.

E in mezzo?

First person life

Sei piccolo e figlio unico, gli altri ti osservano.

Sei giovane e figlio unico, gli altri ti dicono cosa devi fare. Tu, a volte, lo fai.

Sei ragazzino e figlio unico e le tue azioni sono vagliate dagli altri.

Sei uomo e figlio unico e sei preda del corso degli eventi (altrui).

Poi la vita preme F5 e dalla vista in prima persona passi a quella in terza persona.

E vedi.

Vedi il piccolo te che attira gli sguardi degli altri.

Vedi il giovane te fare ciò che deve e generare aspettative.

Vedi il te ragazzino produrre dei risultati.

Vedi il te uomo che determina il corso degli eventi.

Vedi te in interazione con chi ami e proteggi modificare gli eventi. In maniera non predicibile.

Vedi te carica effettiva e non più trascurabile carica di prova.

Vedi noi.

A strange game. The only losing move is not to play.

Addio, Versiontracker

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The team who brought you VersionTracker is part of the team that now brings you CNET Downloads; we are the same people who have been with you for years. We know how important the information on the VersionTracker website is, which is why we wanted to preserve it, enhance it, and make it part of the CNET experience.

(Via Versiontracker popup nella nuova home)

Versiontracker era il portale che annunciava ogni minimo cambiamento di ogni software Mac, piccolo o grande che fosse con tanto di valutazioni, commenti, e link alle versioni precedenti.

Era un mondo in cui eravamo in netta minoranza, i Panda sbeffeggiati dalla maggioranza Win-centrica.

Versiontracker era la dimostrazione che il software per Mac c’era ed era vivo e vegeto.

Versiontracker era l’home page di ogni recensore di shareware, freeware e software commerciale per Mac, prima di Google, prima di Macupdate, prima della pagina Downloads di Apple.com. Prima di App Store.

E ora, con un grande rutto (cit. Clarence), viene digerito nel mare magnum di CNET, che sempre in quell’epoca manco sapeva che gli file compattati Mac finivano in .sit (e neanche oggi, a dire il vero, molti se lo ricordano più). Una scarna VersionTracker FAQ ci racconta che fine fanno gli account Pro e il software a corredo di VT.

Addio VT, ti abbiamo voluto bene.

Mi stupisco di Finiiiii

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Nella mia ingenuità un po’ beota, in questi anni ho creduto che Fini prima o poi si rendesse autonomo da Berlusconi. Pensavo: ecco ora dice una cosa in contrasto con Berlusconi, Fini almeno il senso dello Stato ce lo dovrebbe avere. Ecco, ora dice che sul conflitto d’interessi o sulla legge antitrust Berlusconi ha torto. Non avevo capito niente. Non avevo capito che con cinismo all’ombra di Berlusconi Fini lo stava usando politicamente per avere dei pezzettini di potere. Fini l’ho sottovalutato politicamente anche perché l’avevo sopravvalutato moralmente. Ma valeva la pena dedicare tutta la vita alla politica, energie, tempo, sforzi per diventare democratico, strappi, discussioni, litigate, lacerazioni. Tutta la vita per poi diventare nemmeno l’unico ma uno dei tanti signorsì di Berlusconi.

(via Girotondi – Wikipedia)

Quel 14 settembre 2002 ero arrivato in treno a Roma dall’Apple Expo di Parigi e mi ricordo come se fosse ora la voce di Nanni Moretti che faceva vibrare la piazza del nome di Fini… “Finiiii, Mi stupisco di Finiiiiii”.

Ora non riesco a ritrovare la citazione ma sono quasi certo che AN rispose con qualcosa tipo “non accettiamo lezioni di democrazia da nessuno” (se puoi trovarla sarò ben lieto di correggere il post).

Sta di fatto che lo statista degli altri ci ha messo poco meno di otto anni per cogliere il velato suggerimento di quella piazza.

Bastava non trattenere il fiato nell’attesa.

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