[…] l’unica cosa che davvero mi infastidisce della facilità con cui da un tot di anni a questa parte si possono scattare belle fotografie. Ovvero la perdita di contatto con cosa significhi davvero essere un fotografo, l’incapacità di distinguere un bello scatto da una — mi si scusi il termine — poetica che abbia un valore, il dilagare di riviste, siti e blog che pubblicano fotografi che sanno semplicemente scegliere una buona angolazione ed editare un jpg. Sono convinto che una foto non significhi nulla perché chiunque può fare belle foto — anche un piccione, per dire. Essere un fotografo significa invece essere in grado di raccontare o dire qualcosa, qualsiasi cosa. E quello sì, non sono in tanti a saperlo fare.
(Via Hipstamatic e un pensiero sul futuro della fotografia | Personal Report.)
Pier Mauro Tamburini mette il dito nella piaga del cambiamento socio-tecnologico portato dalla fotografia digitale e dai suoi automatismi correttivi sull’immagine.
La scuola di guerra dell’orizzonte storto sulle diapositive, del ritratto scuro controluce, della bruciatura solare lasciavano nei cassetti migliaia di immagini che ora trovano un loro perché espositivo.
Sono però convinto che come l’occhio prima si meraviglia poi si abitua alla nuova grafica di un videogioco, da qui a pochi anni faremo l’abitudine cerebrale ad una certa “poetica digitale” e distingueremo facilmente il colpo di fortuna assistito dall’occhio allenato del fotografo che fa tesoro dell’esperienza scremando scatti su scatti invece di puntare sulla fluttuazione statistica.
Si impara a nuotare senza pinne; se hai imparato con le pinne si vede, anche se vai più veloce.
io, il passaggio dalla pellicola al digitale, non l’ho mica ancora metabolizzato: non che abbia velleità da fotografo professionista, eh, ma con la pellicola avevo un rapporto più sereno; adesso mi sembra sempre di non riuscir a controllare completamente la macchina, anche in modalità manuale, ho sempre l’impressione che mi sfugga qualcosa
A me delle pellicole manca anche l’odore… 🙂
Scherzi a parte, il digitale ha troppi parametri tutti facilmente controllabili: sembra di stare su un terreno scivoloso e di partorire opere sempre più incompiute. D’altra parte si ha anche la sensazione di onnipotenza di poter correggere all’infinito.