Quest’anno non ho partecipato alla silenziosa marcia dal centro di Bologna alla Stazione. Non volevo mancare ad un’altra camminata per salutare il piccolo Francesco Schelfi.
Ho conosciuto la malga e i formaggi di suo padre Angelo e suo zio Orazio ben prima di diventare trentino adottivo e di mettere su famiglia legandomi a Brentonico. Una fattoria dove, prima di silenzio, altitudine, bontà del cibo, ti colpisce la pasta di cui è fatta la gente. L’intesa e il calore di uno sguardo che proviene da un volto rubicondo e da un corpo di roccia. Una forza accogliente, risate, saluti. Pochissime parole, molta intesa. Aiutame con quei formai, io provo a sollevare una forma da 10 chili ma Orazio la prende con una mano come fosse gommapiuma e la ripone su uno scaffale.
Chi è nato e vive in città probabilmente ha perso di vista la coesione e la forza del tessuto sociale di un piccolo paese. Qui è una rete sociale da sempre, altro che facebook. Un messaggio viaggia ad una velocità impressionante, sia che sia un fatto, un pettegolezzo, una presa in giro, un cambiamento in paese. Se hai bisogno di qualcosa trovi l’idraulico, il muratore ma anche il medico, il rianimatore, il vigile del fuoco, il pronto soccorso. Tutti a uno, massimo due gradi di separazione, più spesso a zero gradi di separazione. Non solo il fare è a pochi gradi di separazione, il sentire è a pochi gradi di separazione. Qui in Trentino la coesione è tutto.
E la rete sociale porta la notizia a casa nostra, a Bologna, per telefono, dopo aver sentito passare l’elicottero dei soccorsi, una voce tremante che rende tremanti le nostre voci. Angelo mi aveva offerto un bicchiere di vino al suo chiosco di formaggi, l’immagine stampata nella testa torna a galla immediatamente. Ed eccomi nella rete, il messaggio passa e devasta, i fatti escono dalla pagina dei giornali e diventano tridimensionali e partecipati.
BRENTONICO. «L’ho ucciso, l’ho ucciso». Angelo Schelfi gridava disperato, scendendo a piedi la pista Canalone con in braccio il corpicino del figlio Francesco. Un disgraziato incidente con il trattore, il mezzo si rovescia, il rimorchio si stacca, spaccando di netto il gancio d’acciaio e travolgendo il bambino di soli due anni e mezzo, sbalzato sul prato dalla cabina.
“L’ho copà! L’ho copàaaa!”, hanno scritto “L’ho ucciso” ma io me lo immagino che avrà urlato “l’ho copà!”, dice Daria leggendo la cronaca locale arrivati in paese. I suoi genitori hanno tenuto i giornali per noi. In copertina sul Trentino una delle foto più toccanti che io abbia mai visto, in cui mamma Daniela porta in braccio un fagotto da cui spuntano capelli biondi.
Siamo in paese, mancano due ore al funerale e la rete sociale pulsa di riverberi e di ricordi. In quel dialetto che è il vero collante sociale, che quando giunge alle masse in TV diventa macchietta ma che qui è l’amalgama fondamentale, per le chiacchiere e gli atti ufficiali, per le cose belle e per le tragedie. In quel dialetto sento pezzi di racconti su una famiglia e un bambino pieno di vita, talmente vivace da essere incontenibile con tutti tranne che con il padre con cui diventava docilissimo. Che dormiva chiuso a chiave perché era capace di uscire e andarsene chissà dove per i monti. Che quella mattina l’erba era ancora bagnata sul canalone, gh’era il sol ma l’era le dese, e l’erba l’era ancora mola da la not. Che qui i puteloti, i bambini, hanno un ruolo speciale mentre noi in città ci facciamo le seghe sulla città a misura di bambino.
Il funerale del piccolo Francesco comincia alle 15 ma la chiesa è già piena quando mancano 10 minuti. In paese un silenzio irreale, riempito dal suono delle campane. Daria chiede se dobbiamo portare la busta o se c’è da firmare. All’ingresso della chiesa troviamo il quaderno per le firme e lasciamo un abbraccio anche da parte dei nostri puteloti. Accanto ci sono due ceste piene di buste. Cosa sono, offerte? No, qui l’usanza è di lasciare le condoglianze in forma privata, ognuno in una busta. Il registro delle firme è l’eccezione.
Il prete va avanti con la messa che seguiamo distrattamente da fuori. Guardo le facce della gente, loro guardano me. E’ come se sapessimo tutti cosa fare e perché stiamo lì, anche se non conosco quasi nessuno di quelli che mi circondano. Azzardo qualche foto, poi metto via la reflex che mi fa sentire un avvoltoio. Non riuscirò mai a cogliere quell’atmosfera fatta di silenzi e di consapevolezza dolorosa. Opto per l’iphone, più discreto e sufficiente a cogliere alcuni dettagli d’insieme.
Ci scambiamo un segno di pace, forse l’unico momento sensato del rito religioso che volge al termine. Come ricevendo un ordine implicito ci spostiamo, disponendoci ai lati dell’entrata con composta efficienza, come una coreografia già provata. Dall’interno qualcuno applaude. Poi esce il proiettile.
Percorrendo velocemente tutta la navata poi attraversando il portone ci passa davanti. Bianca, bianchissima. Portata a mano. Braccia grosse come tronchi portano una bara troppo corta per essere tenuta da tante mani. Qualcosa esplode dentro ognuno di noi. Il portellone del carro funebre si chiude e tutti si mettono in moto.
Ci stiamo per accodare ma rimango attonito. Non riesco a smettere di guardare la cassetta delle condoglianze. C’è arrivato anche un cagnolino di peluche.
Il rito silenzioso da immobile si mette in movimento. La coreografia spontanea diventa una lunga camminata lungo la strada che costeggia la chiesa diretta al cimitero. Nessuno parla, è un caldo giorno d’estate, c’è un po’ di vento che scuote gli alberi, un silenzio affettuoso e rispettoso.
Il cordone giunge al cimitero, il piccolo cimitero ordinato e raccolto di un paese come questo, che attraverso le sue diverse entrate vede dividersi il cordone di gente e ognuno trovare posto dove può, dove vuole. Il cimitero è quadrato ma l’impressione è di trovarsi in un arena, con gli sguardi diretti verso il centro, il sole, il vento, gli alberi, le facce che dicono molto anche senza parlare.
Un singhiozzo profondo squarcia il silenzio, poi un altro e un altro. La bara scende, Angelo e Daniela vanno via. Orazio riceve gli abbracci di tutto il paese e anche i nostri. Piano piano, senza clamori, senza frasi fatte, senza piagnistei, la rete sociale risponde e restituisce affetto.
Ci incontriamo con Beppe, il fratello di Daria. Beppe ha tre figli, i cuginetti di Cesare e Ulisse. Ci guardiamo e piangiamo. A più riprese. Era un po’ che cercavo di mettere insieme le idee per raccontare cosa voleva dire essere genitori, sul perché prima di esserlo i bambini ti sembrano cuccioli di uomo che fanno tenerezza o poco più e dopo diventano parte di te come se il fegato e il cuore mettessero le zampette e se ne andassero in giro ridendo.
I bambini sono vita che ride e che va in giro. Avere dei bambini ti rende speciale e ti fa vivere meglio. Avere dei bambini ti mette in comunicazione con tutti i bambini del mondo. E quei ciuffi biondi è come se li conoscessi anche tu e volessi riportare indietro la macchina del tempo a tutti i costi.
2 commenti